Il caso Toti, un sistema e una lotta in solitaria

ITALIA. E ora la Liguria tornerà a votare: Giovanni Toti, dopo una resistenza (ai domiciliari) durata 80 giorni, alla fine ha mollato la presa e si è deciso alle dimissioni.

Ha spiegato di aver voluto aspettare tutto questo tempo perché, ha detto, così la Regione sarebbe arrivata alla legge di Bilancio e all’inaugurazione della restaurata «strada dell’Amore», «uno dei simboli della Liguria». Motivazioni che non convincono l’opposizione che rinfaccia all’ormai ex governatore di avere tenuto ferma la macchina regionale con danni gravi alla funzionalità della macchina il cui incedere non era certo favorito da un presidente chiuso in casa, inseguito dalle accuse di corruzione e di finanziamento illecito, ogni giorno descritto dai quotidiani come socio in affari di personaggi discussi come il ricchissimo imprenditore Aldo Spinelli e l’ex presidente del porto di Genova Paolo E. Signorini, l’uno e l’altro considerati dalla Procura come una coppia che sotto la Lanterna faceva e disfaceva i proprio affari.

Così Toti esce di scena: sono lontani i tempi in cui si descriveva, nel suo stretto rapporto con Salvini, come «Silvio ai tempi del rapporto con Umberto», proprio lui che aveva sofferto una certa scarsa considerazione del Cavaliere. Dal filo leghismo al filo melonismo, con il suo partitello «Cambiamo» almeno all’inizio si illudeva di diventare la quarta gamba della coalizione di centrodestra. In realtà, una creatura politica fragile che non è mai uscita dai confini liguri frustrando le ambizioni nazionali dell’ex giornalista delle televisioni Mediaset, ripiegato - ma questa è la descrizione che ne dà la Procura per motivare le accuse - sulla costruzione di un sistema di potere locale sempre più pervasivo e, soprattutto ricco, trattandosi del porto di Genova e dei suoi grandi traffici. Dicono che Toti si sia deciso a dimettersi quando ha capito che i giudici non avrebbero mai revocato i domiciliari fino a quando lui non avesse confessato e accettato la condanna: probabilmente la mossa delle dimissioni, accettate come ultima ratio, è servita a spiazzare la strategia dei procuratori genovesi che lo hanno messo sotto torchio. Ma nello stesso tempo è stato un modo per spezzare l’assedio degli «amici» di partito che ormai quasi quotidianamente chiedevano le sue dimissioni: con l’eccezione di Guido Crosetto che ha sempre messo la mano sul fuoco sull’innocenza dell’amico, ormai erano in parecchi in Liguria a chiedergli di farsi da parte e dare una chance al centrodestra di riconquistare la Regione: da ultimo, l’ex ministro dell’Interno Scajola, anche lui reduce da complicate vicende giudiziarie che lo allontanarono dai centri del potere romano.

Curiosa vicenda, questa ligure: nel 2015 Toti fu sfidato dalla renziana Raffaella Paita che perse dopo essere stata azzoppata da una questione giudiziaria dalla quale uscì completamente indenne. Allo stesso modo uno che potrebbe oggi provare a riprendersi la Liguria è il leghista Rixi, anche lui toccato pesantemente dalle inchieste dai giudici (finite sostanzialmente nel nulla). Per non voler poi andare ancora più indietro a ricordare le disavventure dei piddini Burlando (ex ministro dei Trasporti). Oggi tocca a Toti, al quale evidentemente non è bastato, per salvarsi dalla accuse, di aver affrontato e risolto brillantemente, insieme al sindaco di Genova, la tragedia del Ponte Morandi ricostruito a tempo di record liberando Genova dal cappio di traffico che stava strangolando il porto arrecandogli danni probabilmente irrimediabili.

In sostanza però Toti ha combattuto da solo come da solo stava costruendo il suo sistema di potere, ormai irrimediabilmente locale ma non per questo meno solido. Almeno fino a quando non sono arrivati i magistrati e la Guarda di finanza.

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