L'Editoriale
Domenica 05 Luglio 2020
Il caso Regeni
sberla all’Italia
Una sberla, una risposta irridente all’Italia e al suo popolo. L’atteso incontro in videoconferenza del 1° luglio scorso tra i magistrati della Procura di Roma che indagano sul delitto di Giulio Regeni, avvenuto quattro anni e mezzo fa, non solo non ha dato risposte alla rogatoria avanzata 14 mesi fa dai pm (chiedevano di conoscere i domicili dei cinque uomini dei servizi segreti cairoti indagati per le torture e la morte del giovane ricercatore) ma ha ributtato nel nostro campo le responsabilità: i magistrati egiziani hanno infatti richiesto approfondimenti per sapere se Regeni fosse una spia a servizio degli inglesi (studiava all’Università di Cambridge), sospetto infamante che era stato già dissipato in precedenti incontri.
Qualcuno potrebbe alzare le spalle per scrollarsi di dosso questa vicenda che in fondo riguarda un solo cittadino italiano, che «se l’è cercata» come si dice con gretto cinismo a proposito di nostri connazionali che muoiono o vengono rapiti in Paesi pericolosi, o del migrante che naufraga nel Mediterraneo. Ma il rifiuto del regime di al-Sisi a cooperare per individuare gli assassini significa che viene intaccata la nostra sovranità nazionale, dal momento che uno Stato è tale, giuridicamente e moralmente, quando è in grado di tutelare l’incolumità dei suoi cittadini e di perseguire chi a quell’incolumità attenta.
Oltre che la sovranità è in gioco anche la dignità nazionale. Ne esce sconfitto sicuramente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha sempre sposato la linea dell’«appeasement» con la dittatura egiziana e ha creduto, illudendosi, che la vendita di sistemi d’arma italiani per 9 miliardi di euro avrebbe ammorbidito al-Sisi. Questa operazione commerciale è stata mal gestita: era infatti quello il momento, l’esile possibilità di porre come priorità delle priorità la verità sull’atroce morte di Regeni, come parte integrante di una relazione politica e diplomatica oltre che economica. Perché se si crede che abbiamo bisogno dell’Egitto, è altrettanto vero il contrario. Eppure abbiamo alzato la voce solo dopo che la trattativa sulle forniture militari era definita.
Ora nel governo si è aperta una frattura. Conte prosegue sulla sua linea mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio intende richiamare in Italia il nostro ambasciatore al Cairo, Giampaolo Cantini, la cui presenza nella capitale egiziana non ha contribuito allo sviluppo delle indagini, né si può fingere che la situazione dei rapporti fra i due Stati sia normale. L’incontro fra i magistrati - che non è stato nemmeno riaggiornato a nuova data, nonostante la Procura di Roma abbia aggiunto altri cinque nomi nell’inchiesta, tra cui vertici di polizia e intelligence - è avvenuto pochi giorni dopo un atto irridente verso i genitori di Giulio ma anche verso l’Italia. Dall’Egitto è arrivato un pacco contenente quelli che avrebbero dovuto essere gli effetti personali del 28enne ricercatore: ed invece sono oggetti mai appartenuti a Giulio, gli stessi fatti ritrovare nell’appartamento dove al Cairo sono stati uccisi cinque innocenti per depistare le indagini e far credere che il caso fosse chiuso. Un affronto, una mancanza di rispetto verso i coniugi Regeni, una presa in giro cinica dell’Italia: ma per chi ci hanno preso? Se fosse vera la ricostruzione che circola in ambienti dei nostri servizi segreti, Giulio fu torturato e ucciso da dieci 007 egiziani sotto la responsabilità del figlio del presidente al-Sisi. Questa è l’unica verità che potrebbe spiegare il motivo per cui 12 incontri tra le procure non siano serviti a nulla.
L’Italia avrebbe potuto tentare un arbitrato internazionale sul caso, come è stato fatto, con esito positivo, per i due marò responsabili dell’uccisione di due pescatori indiani il 15 febbraio 2012, confusi per terroristi. Il processo si terrà in Italia. Un successo negoziato riservatamente dai due governi, italiano e indiano, contrattato politicamente e diplomaticamente. Che porta anche l’importantissimo risultato di normalizzare dopo anni le relazioni fra Roma e New Delhi. L’Italia ammette la sua responsabilità nell’incidente e si prepara a pagare i danni, alle famiglie e all’India. Il Tribunale arbitrale internazionale dell’Aja ha emesso giovedì scorso la sua sentenza: il nostro Paese era ricorso alla Corte nel 2015 per decidere sul caso dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. I giudici hanno precluso all’India l’esercizio della giurisdizione sui due marò: hanno riconosciuto che erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nell’esercizio delle loro funzioni. Ma «l’Italia ha violato la libertà di navigazione e dovrà pertanto compensare l’India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony», a bordo del quale morirono i due pescatori del Kerala. Il Tribunale «invita le due parti a raggiungere un accordo attraverso contatti diretti». La conclusione di questa vicenda ci dice due cose: che sul caso Regeni non sono state esperite tutte le vie; per fortuna esistono organismi sovranazionali in grado di dipanare i nodi di realismi diplomatici al ribasso che non sanno fare giustizia.
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