Il caso accise, la retorica non coincide con la realtà

Attualità. La legge ferrea della realtà si prende la rivincita e non contempla eccezioni. Visto da questo angolo, il caso delle accise è da manuale. Sul piano politico è il primo vero ostacolo per Giorgia Meloni, che peraltro le giunge da un mondo ritenuto non lontano dal centrodestra. Luna di miele finita, pax meloniana in via di ridimensionamento?

Per la prima volta la premier è costretta a difendersi e a contrattaccare su un terreno sensibile della vita quotidiana, uno di quei nervi vivi della società, dove si ritiene che la destra sia più attenta e pratica rispetto alle astrattezze filosofiche del centrosinistra: anche per questo l’impatto può non essere indolore. La decisione di non rinnovare il taglio delle accise sui carburanti è dovuta al principio di realtà, ammesso dalla stessa Meloni: confermare la misura del governo Draghi costa troppo, non ci sono soldi e quei pochi disponibili sono stati destinati per arginare il caro bollette e per tutelare le fasce deboli. Il tutto spiegato in modo piuttosto confuso e con qualche acrobazia lessicale, quando si è cercato di negare la mancata promessa elettorale sulla cancellazione delle accise. In più l’allarme speculazione, smentito però dal ministero dell’Ambiente, che non ha riscontrato «anomalie generalizzate». Ora non è chiaro se la premier intenda fare retromarcia, mettendoci una pezza e in che maniera, e poi si dovranno vedere gli sviluppi della protesta dei benzinai, che si sono sentiti bersagliati da «un’onda di fango» e che per ora hanno congelato lo sciopero annunciato.

Il caso accise ha tutta l’aria di essere un pasticcio impopolare per un destra-centro che, dopo aver vinto sulla base di aspettative crescenti da parte degli elettori, deve operare in un contesto sociale ed economico di attese decrescenti. Si sta delineando l’affresco descritto dal più noto sociologo italiano, Giuseppe De Rita, in un’intervista a «Repubblica»: in un Paese affetto da «stasi depressiva», la destra deve imparare la complessità del governare, mentre un pezzo della società teme di essere stato ingannato. Si dirà che eccedere negli slogan e nella manifesta capacità di contraddirsi fra ciò che si promette e quel che si realizza è prassi consolidata: così fan tutti. Tuttavia il voto è stato interpretato dai vincitori come un prima e un dopo netto, senza il nutrimento del dubbio. Anche il successo, però, non è un pranzo gratis e torna indietro come un boomerang, perché adesso la necessità è razionalizzare le paure.

Il metodo Meloni, pervaso dalla «coerenza», parola ricorrente, comincia a subire il peso di una retorica comunicativa che non coincide con la realtà imposta da tutti i guai che stiamo attraversando, noti da tempo e per i quali nessuno ha la bacchetta magica. I passi falsi iniziali dell’esecutivo, dalla marcia indietro sul Pos alle correzioni delle norme sui rave party, hanno interessato fasce della popolazione, mentre l’aumento del prezzo dei carburanti riguarda tutti: non è percezione, ma realtà «vera», tangibile, un indicatore preciso per i cittadini, la prima delusione degli elettori di destra. Le logiche mediatiche estreme alimentano un circolo vizioso che poi presenta il conto, come ha scritto l’economista Leonardo Becchetti su «Avvenire»: «Il tristissimo dibattito sulle accise di questi giorni insegna. All’opposizione si fanno promesse irrealizzabili e incompatibili con il vincolo di bilancio che poi si smentiscono una volta al potere». Questo è uno dei casi in cui non si riesce a conciliare la sostenibilità finanziaria con la popolarità. Per quanto Giorgia Meloni intenda non farsi omologare, s’è visto un doppio registro, un sovranismo ibrido: allineato agli standard quando le decisioni non possono andare che in questa direzione e alcune incursioni laterali di segno identitario (immigrati, querelle con Macron, oscillazioni sul Pnrr, attacchi a Bankitalia e alla Bce, aspettando la ratifica o meno della riforma del Mes). Turbolenze che parlano alla propria base elettorale, per poi rientrare dopo la fiammata o rimanere in agguato sotto traccia, in cui conta l’estetica dell’averci provato.

Che poi la «coerenza» della premier non sia sempre tale, può essere positivo per il Sistema Paese. Indicativo, da quel che s’è visto, l’aggancio tra Palazzo Chigi e i vertici europei: non era scontato perché si tratta di un nervo scoperto della destra, ma restare sul carro europeista diventa essenziale per via delle ricadute della stretta sui tassi, per l’inflazione che da noi è più alta che in Francia e in Germania e perché a marzo non ci saranno più i 21 miliardi stanziati nella legge di bilancio per contenere il rialzo delle bollette. Resta da verificare chi paga il prezzo politico del primo inciampo del governo, che pure ha i numeri per reggere l’urto delle polemiche. Berlusconi e Salvini stanno stretti nei panni di junior partner, sostanzialmente subalterni alla leadership della premier: il primo si espone di più, il secondo, per ora, meno. Entrambi soffrono in vista della ricerca di spazi di manovra, di qualche varco gagliardo. Il test per misurare equilibri ed umori è a febbraio con le regionali in Lombardia e Lazio. Nel cuore della Padania si gioca il secondo tempo fra i «diversamente amici» Meloni e Salvini.

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