Il capitalismo
secondo Draghi

Per capire quale sia davvero l’essenza della «Draghinomics», secondo molti osservatori, bisognerà attendere l’implementazione del Piano di Ripresa e Resilienza. Secondo altri, invece, sarà la annunciata Legge sulla Concorrenza il vero segno distintivo del Governo. Una minoranza, infine, scommette sulle «riforme strutturali» come piatto forte di un esecutivo di unità nazionale. Eppure, a tre mesi dall’insediamento a Palazzo Chigi dell’ex presidente della Banca centrale europea, un tratto innovativo della politica economica di Draghi già si va delineando. Parliamo di un rinnovato protagonismo del «capitalismo politico», non del vecchio «statalismo», ma piuttosto della compenetrazione di economia e politica, dell’uso politico di commercio, finanza e tecnologia, insomma di quel fenomeno che vede gli spiriti animali del capitalismo muoversi in sincrono con gli interessi geopolitici degli Stati nazionali.

Proviamo a unire i puntini, partendo dalla scelta del Governo, lo scorso 11 marzo, di mettere nero su bianco una certa preoccupazione per l’intesa stretta da Fastweb con la società cinese di telecomunicazioni ZTE e la taiwanese Askey. Nel caso specifico, l’esecutivo ha raccolto il parere del ministero per lo Sviluppo economico presieduto dal leghista Giancarlo Giorgetti e ha deciso di utilizzare i «poteri speciali» che gli sono concessi dalla normativa sul golden power per «effettuare il profilo di rischio del fornitore». In ballo c’erano contratti per la rete 5G e Fastweb è stata dunque chiamata a offrire chiarimenti sulla tutela dei dati che passano per l’infrastruttura.

Un mese dopo, a inizio aprile, il governo Draghi, sempre ricorrendo ai poteri del golden power, ha bloccato - per la prima volta dal 2012 - l’acquisizione di un’azienda italiana da parte di una concorrente straniera. Uno stop imposto alla società cinese Shenzen Investment Holdings Co. che avrebbe voluto rilevare la (consenziente) azienda lombarda Lpe Spa, attiva nel settore dei semiconduttori. Di nuovo, la proposta di far scattare il semaforo rosso in faccia ai Cinesi sarebbe arrivata dal ministero dello Sviluppo economico, d’intesa con intelligence, ministeri della Difesa e degli Affari esteri. Draghi ha rivendicato la scelta, osservando che la carenza di semiconduttori ha costretto molte Case automobilistiche mondiali a ridurre la produzione di vetture. Sottinteso: ci sono ragioni di interesse nazionale per tutelare la «italianità» delle filiere produttive, o quantomeno per perseguire l’indipendenza dalla Cina e da certe sue aspirazioni monopolistiche.

Infine, nelle ultime settimane, due decisioni inattese assunte da colossi privati: il gruppo Cnh Industrial – controllato da Exor – che mette fine alle trattative per la cessione del marchio italiano di veicoli industriali Iveco alla cinese Faw Jiefang (con tanto di felicitazioni pubbliche del ministro Giorgetti); e poi Tim che disdice un contratto sottoscritto a inizio 2020 con la cinese Huawei per la realizzazione della rete d’accesso 5G nel nostro Paese.

«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», diceva la regina del giallo Agatha Christie. I tre indizi citati finora non fanno eccezione. Mario Draghi, già protagonista della fase che all’inizio degli anni ’90 ha consegnato alla storia l’«economia mista» italiana e ha catapultato il Paese nell’era delle privatizzazioni, quasi trent’anni dopo sembra voler imprimere una nuova sterzata alla politica economica della penisola. In quest’ottica, economia, sicurezza nazionale e priorità geopolitiche del Paese, per quanto possibile, marciano unite. In sintonia, tra l’altro, con un vento che spira dagli Stati Uniti in modo bipartisan, con Amministrazioni diverse come quelle di Trump e Biden unite nell’assumere un atteggiamento più assertivo rispetto al capitalismo di Stato «made in China». D’altronde, come ricorda in un recente libro sul «capitalismo politico» un consigliere di Palazzo Chigi, Alessandro Aresu, perfino Adam Smith, padre ideale dell’economia di mercato e autore nel 1776 del classico «La ricchezza delle nazioni», scrisse una volta che «la difesa è molto più importante della ricchezza». Se non è l’essenza della «Draghinomics», ne è sicuramente un caposaldo.

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