L'Editoriale
Martedì 10 Gennaio 2023
Il Brasile spaccato, ma c’è una regia
Il commento. Prima di addentrarci nell’improvvisa ma non inattesa crisi del Brasile, dovremmo recuperare alla memoria alcune cifre ricche di significato. Il 30 ottobre del 2021, quando divenne presidente del Brasile per la terza volta, Luiz Inacio da Silva detto Lula ottenne il 50,9% dei voti contro il 49,1% del rivale, e presidente in carica, Jair Bolsonaro. Per dire: Bolsonaro nel 2018 era diventato presidente con il 55,13%.
Se poi si osserva la distribuzione del voto in quel giorno fatale di fine ottobre, si nota che gli Stati che votarono in maggioranza per Lula al secondo turno erano gli stessi che già avevano votato per lui al primo turno, proprio come successe per Bolsonaro. Cambiarono solo, e della frazione che abbiamo indicato prima, le percentuali. Questo serve per dire che Bolsonaro era riuscito come nessun altro leader politico brasiliano a compattare il fronte delle destre, unendo agli industriali beneficiati da liberalizzazioni e privatizzazioni (messe sul mercato più di 700mila proprietà statali) agli agrari gratificati dal via libera a un nuovo sfruttamento delle ricchezze dell’Amazzonia agli strati sociali più poveri, che nel settore agricolo e in quello minerario trovano appunto la loro occasione di lavoro e di ciò che va oltre la mera sopravvivenza (primo provvedimento di Bolsonaro presidente: l’aumento del salario minimo). Da cui un consenso per l’ex ufficiale di artiglieria che, al di là delle alleanze tattiche e strumentali, era comunque corposo.
Da quando è stato scalzato da Lula, dopo i disastri sulla gestione del Covid, la crisi sociale e i tentativi di ridurre gli investimenti nell’istruzione e nella salute, Bolsonaro ha provato a percorrere un doppio binario. Con un piede, quello del leader responsabile che, pur a fatica, accetta il responso di un’elezione democratica. Dall’altro, quello del populista che fa ogni sforzo per delegittimare il risultato di quella stessa elezione che dice di rispettare. Per esempio, disertando la cerimonia di insediamento di Lula e rompendo una consolidata tradizione di passaggio del testimone che ha anche una funzione di garanzia per il funzionamento delle istituzioni. Molti dicono che c’è tanto Donald Trump, in questo. È vero, ma con alcuni distinguo. Trump ha sempre parlato in prima persona di brogli a favore di Joe Biden. Bolsonaro, come dicevamo, lo ha fatto fare soprattutto ad altri. I fanatici che diedero l’assalto al Campidoglio di Washington volevano che l’elezione fosse annullata. I bolsonariani che hanno preso d’assalto i palazzi della Presidenza, del Parlamento e della Corte Suprema, invece…
A questo punto si arriva ai puntini perché gli insorti, in giorni e giorni di disordini, non hanno saputo esprimere un leader riconoscibile ma soprattutto, nemmeno uno straccio di programma, un’ipotesi, un desiderio, se non quello di far finta che il 30 ottobre dell’anno scorso non fosse successo niente. Eppure non è stata una protesta improvvisata, da qualche parte una regia c’è stata, visto che prima dei disordini i bolsonariani bivaccavano nei pressi o dentro le caserme. E anche una cassaforte, perché qualcuno deve aver pur pagato i pullmann che li portavano qua e là. La risposta sta nel fatto che questo non è stato un golpe ma una richiesta di golpe. I «fanatici fascisti» di cui parla Lula non volevano dare l’assalto al potere ma convincere qualcun altro a farlo: i militari, che tanta parte peraltro hanno avuto nella storia contemporanea del Brasile, a cominciare dal colpo di Stato del 1964 con la conseguente dittatura militare che durò fino al 1985. Grande dev’essere stata la sorpresa quando i soldati, invece di appoggiarli, hanno cominciato ad arrestare i rivoltosi.
Bolsonaro, sempre sul suo doppio binario, è scappato negli Usa. A Lula, però, che voleva governare a nome di tutti i 215 milioni di brasiliani, resta un Brasile spaccato come non mai, con potentati economici e politici che hanno tutti gli strumenti, a partire da quello finanziario, per rendergli la vita difficile e bloccare un eventuale percorso di riforme. E soprattutto un sospetto: che in quelle caserme si annidi un potenziale nemico che, forse, aspetta solo un momento migliore. Impossibile che a Lula non venga la tentazione di fare piazza pulita. Dovrà controllarsi, e usare tutta l’astuzia per la quale, peraltro, va famoso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA