Ideologie muoiono
Gli ideali no

È indubbio come gli ultimi decenni del secolo scorso, causa una serie di vorticose «mutazioni» economiche, politiche e sociali a livello mondiale, abbiano messo in crisi le precedenti ideologie, soprattutto di matrice politica, sedimentatesi lungo l’intero arco del Novecento. Partire, però, dal disfacimento delle «ideologie politiche» - sancito dal crollo del muro di Berlino - per decretare la definitiva scomparsa di ogni visione ideologica e strutturata del pensiero civile appare atteggiamento puerile e storicamente miope perché privo di fondamento.

È quanto sta avvenendo nella nostra «società liquida» e «post ideologica», nella quale è ormai di moda affermare che «destra» e «sinistra» non esistano più quali categorie d’indirizzo del pensiero e del conseguente vissuto sociale. In realtà, credere di vivere in un’era priva di ideologie è essa stessa un’ideologia e anche una delle più totalizzanti e persuasive. Questa posizione, infatti, nasce dall’equivoco d’identificare la parola ideologia con qualcosa di negativo dimenticando che essa altro non è che un complesso di credenze, opinioni e valori che definiscono una determinata appartenenza laica.

Indipendentemente dalla convinzione di questo o quell’esperto di politica, le ideologie permangono in quanto le «spinte ideali» che orientano i gruppi sociali sono esistite, esistono ed esisteranno sempre.

Assai più realistico sarebbe affermare che, così come si sono esaurite le ideologie politiche del Secolo scorso, se ne esauriranno altre, soppiantate da nuovi impulsi ideologici capaci di trovare il giusto ancoraggio e di saper dare risposte più precise nel confronto quotidiano con la contemporaneità. Perché l’ideologia è l’unico e l’ultimo baluardo di autocoscienza che gli esseri umani hanno per fare i conti con i moti della propria dignità nella duplice dimensione introspettiva e comunitaria. Solo dal confronto costruttivo tra varie «visioni della realtà» possono scaturire dimensioni politiche con più apprezzabili contenuti di democrazia e progresso sociale. Queste riflessioni erano presenti in quanti, oltre settant’anni fa, contribuirono alla stesura della nostra Carta Costituzionale.

Essa fu varata in un momento in cui, dopo la fine delle sciagurate esperienze fasciste e naziste, si rendeva necessario ritrovare un accordo tra le nuove ideologie che si andavano affermando e che trovavano ancoraggio in storiche correnti di pensiero. Il personalismo cristiano e le tradizioni liberali dovevano combinarsi con le istanze di giustizia sociale proprie della tradizione socialista. L’idea di fondo che riuscì a tenere insieme tutte queste componenti è che il progresso deve realizzarsi in un contesto di libere iniziative economiche e che la stabilità del sistema si fonda su un soddisfacente grado di giustizia redistributiva. Nell’ambito di tale visione generale trovarono spazio altri importanti principi: che la partecipazione a pieno titolo di ogni cittadino alla vita politica e sociale passa attraverso il lavoro; che la proprietà privata e la libertà di intrapresa sono a fondamento dell’ordine economico; che devono essere sviluppate forme di solidarietà sociale a sollievo delle fasce più deboli; che il risparmio individuale e collettivo deve essere protetto; che il lavoro è un diritto, ma è anche un dovere; che lo Stato deve creare le condizioni affinché ognuno sia posto in grado di contribuire con la sua opera al progresso civile ed economico della Nazione.

L’insegnamento che ci deriva da un’analisi approfondita dei principi ispiratori della nostra Costituzione è che l’assetto sociale più adeguato di un Paese nasce dal confronto costruttivo tra varie ideologie. Soprattutto, che gli ideali possono e devono vivere (non sopravvivere) anche dopo la fine delle ideologie dogmatiche.

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