I tecnici autorevoli
La politica sia adeguata

Task force per la gestione del Recovery Fund: il dibattito si infiamma sempre più. E, fatalmente, si ingarbuglia invece di dipanarsi alla ricerca della soluzione più adeguata. Vengono a galla, nelle tormentate vicende di questi mesi segnati dalla lotta per sconfiggere la pandemia, i limiti intrinseci di quella che si usa definire «classe dirigente». Di recente la politologa Ersilia Crobe ha sostenuto che la politica «sembra voler arretrare, delegando a commissari, comitati tecnici, tavoli di discussione, stati generali, task force la definizione degli scenari di uscita dall’emergenza».

Una raffigurazione tanto cruda quanto realistica. Il panorama attuale non rappresenta una novità, essendo divenuta «una prassi istituzionale oramai consolidata, che mina gli assunti classici alla base della relazione tra politica e amministrazione e dei loro ambiti di intervento». Che i governanti operino le scelte basandosi sull’autorevolezza dei «tecnici» è certamente lodevole. Così è stato, nei mesi passati, allorché i provvedimenti (sia quelli restrittivi che quelli di parziale o totale apertura) venivano emanati, basandosi sulle valutazioni di un comitato scientifico composto di clinici. In ciò vi è un atteggiamento di riconosciuta consapevolezza che si governa sulla base della conoscenza dei problemi.

Vi è, peraltro, un aspetto ulteriore che riguarda il rapporto tra conoscere e governare, tra competenza e responsabilità politica (ciò vale per il governo centrale quanto per quelli locali). Questo innegabile elemento di distinzione viene sintetizzato in genere nella contrapposizione tra politici e tecnici. Siffatta visuale annebbia il fatto che la politica è fatta di saperi e di tecniche, al pari di ciò che accade per qualunque ramo dell’agire umano. Ciò che, in fondo, conta davvero è la competenza come elemento indispensabile per operare scelte giuste. E qui emerge il nodo irrisolto. Da sempre si usa dire che un ministro, quando non sa cosa fare, nomina una commissione di studio. Delegare a corpi esterni alla politica e alle istituzioni esistenti più che un rimedio appare un’ammissione di inadeguatezza.

Al momento la discussione sull’uso dei fondi messi a disposizione della Ue si muove sulle sabbie mobili. Da un lato, si scarica una parte delle responsabilità su soggetti non legittimati dalla volontà popolare, dall’altro si mettono fuori gioco le istituzioni pubbliche alle quali spetterebbe di gestire - sulla base delle scelte politiche - le risorse finanziarie necessarie a rilanciare e modernizzare il Paese. Di fatto, la decisione di istituire una task force finisce inevitabilmente per sovrapporre una schiera di «tecnici» alle strutture amministrative che dovranno compiere gli atti necessari affinché si facciano le operazioni necessarie all’uso delle risorse stanziate nei diversi settori. Il rischio di cortocircuiti è palese. Occorre riflettere su una circostanza, che potrebbe apparire un paradosso ed è, invece, il marchio di fabbrica della «Azienda Italia»: l’insufficiente capacità di tradurre in fatti le scelte politiche (siano esse leggi dello Stato piuttosto che direttive di governo).

Eppure esistono precedenti dei quali si dovrebbe tener conto. Nel corso del primo conflitto mondiale avvenne una massiccia contaminazione tra burocrazie pubbliche e mondo privato: alcuni «capitani d’impresa» (come si diceva allora) vennero chiamati a ricoprire funzioni di vertice in apparati amministrativi strategici. La scelta si rivelò felice. Non vi fu sovrapposizione alle strutture tradizionali, bensì una selezionata operazione di ricambio in settori chiave dell’attività pubblica. Per raggiungere gli obiettivi che sono già stati individuati occorrerebbe seguire la strada tracciata oltre un secolo fa. Sarà possibile farlo nelle attuali condizioni politiche? Difficile dirlo. Di certo la Commissione europea - di fronte a ritardi o inadempienze - potrebbe tirar fuori il cartellino giallo. E, dopo, anche il cartellino rosso.

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