L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 25 Giugno 2024
I nuovi «invisibili», problema sociale
ITALIA. Nel capannone dell’ex dopolavoro ferroviario, nell’area della stazione di Bergamo, si è accampato un pezzo di mondo che sembrava remoto e invece ci è terribilmente vicino, appena nascosto dalle palizzate del cantiere di Rfi.
Un mondo che per molti versi ci sfugge, ma con il quale dobbiamo imparare, comunque la si pensi sul fenomeno, a fare i conti, senza cedere all’illusione che la soluzione alberghi solo in interventi di polizia, oppure in restyling urbanistici. Puntare il faro su una inaccettabile situazione di degrado umano, come ha fatto L’Eco ieri, documentando i bivacchi e i giacigli di fortuna che proliferano nell’area, e favorendo la reazione delle istituzioni a tutti i livelli, dalla Prefettura al Comune, è un buon inizio. Ma il problema, com’è ovvio, è complesso, e cela alla base un deficit di percezione che deve essere per forza di cose colmato.
A Bergamo la zona della stazione è da sempre zona di passaggio e rifugio per il popolo degli invisibili.La situazione, spesso drammatica, non è mai stata, però, va detto, del tutto fuori controllo.È prevalsa di volta in volta una sorta di controllo sociale, esercitato da chi per professione (forze dell’ordine, educatori di strada), oppure costretto dalle circostanze (studenti, lavoratori, autisti, esercenti), si è trovato a frequentare o a transitare da piazzale Marconi e dintorni. In qualche modo, con tutte le contraddizioni e asperità del caso, il popolo degli invisibili faceva parte di un paesaggio urbano ancora riconoscibile, inglobato in un’idea di città che aveva imparato, anche suo malgrado, a convivere con i suoi figli più fragili. Certo, non sono mancate le emergenze: gli edifici occupati non sono una novità di questi anni, basta ricordare cosa accadeva all’interno dell’ex Cesalpinia, la fabbrica poi abbattuta per realizzare il nuovo quartiere in via Bono e diventata nel corso degli anni rifugio per centinaia di sbandati. Ed è sempre stato vivo il dibattito, in città, tra chi temeva la cronicizzazione del disagio e chi invece intuiva che, dietro a quelle ombre vaganti, c’era una domanda di umanità che andava a tutti i costi ascoltata.
Ora però quelle categorie sono superate. Sono saltate le coordinate per intercettare una periferia umana che dalla dimensione locale ha abbracciato in un tempo straordinariamente breve (o forse siamo noi che nel frattempo ci siamo girati dall’altra parte?) un orizzonte globale. E allora occorre alzare lo sguardo per iniziare a capirci qualcosa. Oggi, nel mondo, sono in fuga oltre 114 milioni di persone, una ogni 73. E nel 2024 i rifugiati potrebbero arrivare a 130 milioni. In Europa si affaccia solo una piccolissima parte di quell’enorme popolo in fuga (poco più di un milione le richieste di asilo nel nostro continente nel 2023), e una scheggia di quel popolo senza nome è finita proprio qui, in quel capannone abbandonato di piazzale Marconi. Ma quegli uomini e quelle donne, i nuovi invisibili, questa volta hanno volti sconosciuti. Le loro vicende umane sono planate alle nostre latitudini senza pista di atterraggio. Non riusciamo a percepirli, se non come un problema, esattamente come loro considerano le nostre città come luoghi di transito o rifugi temporanei, ennesima tappa di una fuga infinita.
Ed è il risultato di troppi anni di non governo dei flussi migratori, forse nella speranza, vana, di frenare un movimento tellurico che sta squassando il pianeta intero. O nell’illusione di contenerlo, un po’ come si neutralizza un transitorio turbamento dell’ordine pubblico. Venendo a noi, allo stesso modo, se da una parte è doveroso intervenire per risolvere la spaventosa situazione dell’ex dopolavoro ferroviario, non si può non vedere, in prospettiva, che senza un cambio deciso di paradigma, che passa necessariamente attraverso maggiori risorse per l’integrazione di queste persone, vivremo solo un breve intervallo di pace apparente fino alla prossima emergenza da gestire.
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