L'Editoriale
Mercoledì 25 Maggio 2022
I falchi di Mosca e la guerra di posizione
Dmitrij Medvedev è stato presidente (2008-2012) e primo ministro (2012-2020) della Federazione Russa e come tale si era guadagnato una solida fama di liberale e, per quanto lo si possa dire di un politico russo, filo-occidentale. Da quando la crisi con l’Ucraina si è acuita, e soprattutto da quando è sfociata nell’invasione cominciata il 24 febbraio, Medvedev è diventato il portavoce dei falchi, il più aggressivo, il primo a parlare di bombe atomiche.
Così, quando dismette il piano di pace presentato dall’Italia come «fuori dalla realtà», dobbiamo ascoltarlo, se non altro perché è chiaro che parla a nome di ambienti e circoli di potere che hanno influenza sul Cremlino. Sono i siloviki (dalla parola sila, forza), ovvero i rappresentanti dei servizi segreti e delle forze armate, che così tanto hanno investito in questa guerra e che ora, dopo la caduta definitiva di Mariupol’ e i progressi dell’avanzata russa nel Donbass, non vogliono accettare di fermarsi.
Analisti occidentali hanno calcolato che il territorio ucraino occupato dai russi vale, oggi, più o meno il 20% del totale dell’Ucraina. In queste condizioni, pensare che i russi possano ritirarsi sulle posizioni che occupavano prima del 24 febbraio (circa l’8% del territorio ucraino) è pura utopia.
È quello che propone lo stesso Zelensky, con una differenza: lui non vuole trattare, prende una posizione fintamente «trattativista» perché gioca la parte dello statista ragionevole, in realtà è perfettamente conscio che in queste settimane si gioca l’esistenza stessa dell’Ucraina in quanto Paese autonomo. Parlare di svolta forse è troppo. Certo è che da quando i russi hanno costituito un comando unificato delle operazioni in Ucraina e l’hanno affidato al generale Dvornikov, molte cose sono cambiate. I russi hanno cominciato a distruggere, giorno per giorno, le strutture essenziali dell’Ucraina per indebolirne la spina dorsale. E in parte ci sono riusciti.
L’Ucraina non è ancora sconfitta, armi ancora più potenti stanno arrivando da Occidente. Ma qualche segnale che il morale non è più quello di prima si scorge con evidenza. Al Parlamento il partito del Presidente Zelensky, Servo del Popolo, ha avanzato una proposta di legge per autorizzare la fucilazione immediata dei soldati che rifiutassero di avanzare o combattere. La proposta è stata poi ritirata tra le polemiche, ma la giornata è stata amarissima.
Allo stesso modo non generano ottimismo i progetti di legge di cui si parla da quando il presidente polacco Duda ha fatto visita a Kiev. Concederebbero, a quanto si dice, uno status speciale ai cittadini polacchi, che in Ucraina potrebbero assumere cariche pubbliche e incarichi di alto livello. Sono voci ma sembrano il prologo a un disfacimento del Paese, a una divisione Est-Ovest con l’Est sotto l’egida della Russia e l’Ovest inglobato in qualche modo nella Polonia. Sempre che tutto questo non serva a coinvolgere la Polonia stessa nel conflitto, con quell’allargamento alla Nato che tutti paventano.
Insomma, la guerra diventa sempre più dura. E stupisce, dopo tre mesi di conflitto e di sanzioni sempre più incalzanti, anche la postura del Cremlino, che ogni giorno rilancia lo scontro con l’Occidente. Il ministro degli Esteri Lavrov ha addirittura parlato di una rottura totale e definitiva, immaginano una Russia che in ogni campo fa da sé, libera da relazioni e influenze. Un’utopia autarchica che non vale tanto in sé (osiamo sperare che sia impossibile, vogliamo sperarlo per noi e per la Russia) ma che rivela un atteggiamento, uno stato d’animo. D’altra parte, la stessa invasione dell’Ucraina è stata una rottura deliberata e violenta con l’Occidente, e forse proprio in questo senso è stata concepita da Vladimir Putin e dai suoi.
Se rottura sarà, le conseguenze saranno drammatiche per tutti. Lo vediamo bene dagli allarmi che si sono levati in questi tre mesi. La crisi energetica, di cui scontiamo gli effetti iniziali ma che misureremo in pieno forse solo con l’arrivo dell’autunno.
La crisi alimentare, che rischia di rovesciarsi soprattutto sui Paesi meno ricchi. La trasformazione del Mar Baltico in un bacino di confronto tra la Nato e la Russia. Il Mare Artico, dove dovevano aprirsi nuove rotte commerciali, che diventa invece l’ennesima palestra di tensioni militari e progetti di riarmo. Questa follia non doveva cominciare. Adesso sarebbe il caso di applicarsi a farla finire al più presto.
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