I due governi in carica
e l’altalena sui conti

Continua l’altalena nel governo: anche nelle ultime ore Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno continuato ad attaccarsi, a criticarsi, a punzecchiarsi. E questo solo il giorno dopo quello che è stato definito (frettolosamente) l’incontro «della pacificazione» o almeno dell’armistizio estivo tra i due leader, forse in nome del generale agosto incombente. Ma a dispetto delle dichiarate buone intenzioni, il susseguirsi di fasi brevi di bonaccia a fasi lunghe di tempesta è subito ricominciato. E su un terreno particolarmente difficile come quello della manovra economica in gestazione.

Salvini non ha affatto gradito le ultime esternazioni del ministro dell’Economia Giovanni Tria in materia di deficit e tasse. Al punto da esclamare: «O sono un problema io o è un problema lui», e non ci possono essere dubbi su chi il Capitano pensa che debba emendarsi o farsi da parte. Questo perché Tria ha detto che il deficit 2020 sarà contenuto per via degli accordi che ci hanno evitato lo scatto della procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Inoltre Tria ha la colpa di aver rimandato all’anno prossimo la riforma fiscale che la Lega vorrebbe, la Flat tax.

Proprio l’esatto contrario di ciò che vuole Salvini: manovra subito, anticipata ad agosto, con dentro la tassa piatta e senza troppe preoccupazioni per il deficit. Il presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera aggiunge anche i mini-bot, una misura che – a parte i salviniani – non è condivisa da nessuno, né autorità né economisti.

Di fronte alle esternazioni di Salvini interviene per difendere Tria proprio Di Maio, secondo il quale «la Flat tax è ancora un mistero» che costerebbe un sacco di soldi e che dunque il ministero di via XX Settembre fa bene a rimandare a tempi migliori. Semmai, aggiunge, si può ritoccare il cuneo fiscale e introdurre il salario minimo con i soldi degli ottanta euro di Renzi (che da soli costano dodici miliardi di euro).

In questa bagarre, vale la pena di osservare che gli schieramenti sono decisamente cambiati rispetto all’anno scorso, alla prima finanziaria giallo-verde, quella della cosiddetta «sconfitta della povertà». Allora il povero Tria doveva difendersi dalle pressioni sia di Salvini che di Di Maio che volevano più deficit in barba all’Europa per introdurre quota 100 e reddito di cittadinanza. In mezzo, Conte provava a mediare. Adesso invece Conte, Tria e Di Maio sembrano essere diventati una cosa sola: rispettosi delle regole europee, contenti per lo spread ridimensionato e la procedura di infrazione evitata. Salvini è in polemica con tutti e tre: con il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia che sono esponenti di quel partito «del Quirinale» che prova a correggere le scapigliature dei politici, e con Di Maio che è a capo di un partito in seria difficoltà dopo le sconfitte elettorali. Il capo della Lega, che si sente il vero numero uno del Governo, intende far digerire ai grillini anche una manovra come la vuole lui dopo che il M5S ha fatto dietrofront sulla Tav, su Atlantia-Alitalia, e prima ancora sull’Ilva, la Tap, senza contare il sì ai due decreti sicurezza che sono costati al movimento l’ennesimo strappo interno. Salvini inoltre punta a far rimangiare al Guardasigilli Bonafede anche la sua riforma della giustizia: «Così non va bene, bisogna discuterne».

Ecco dunque come agli italiani appaia che in realtà ci sono due governi in carica: quello istituzional-grillino e quello politico leghista. I voti ce l’ha quest’ultimo, ma il boccino di palazzo Chigi e del ministero dell’Economia è ancora saldamente nelle mani del primo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA