I Comuni, legami contro la guerra

Europa.L’iniziativa si chiama «Generatori di speranza» ed ha come destinatario l’Ucraina, dove in seguito ai raid russi è stato distrutto oltre il 40% delle centrali elettriche, lasciando senza corrente 10 milioni di persone. È stata lanciata dalla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola e dal sindaco di Firenze Dario Nardella, presidente di Eurocities, la rete delle 200 città più grandi del vecchio continente.

L’obiettivo è mantenere in funzione le strutture essenziali del Paese aggredito, fornendo energia in particolare a ospedali, impianti di approvvigionamento idrico, centri di soccorso, rifugi e antenne telefoniche. Finora 80 città hanno dato la propria adesione all’iniziativa. I Comuni possono svolgere un ruolo importante nel sostegno materiale a luoghi colpiti da conflitti. È la cosiddetta «cooperazione decentrata», esercitata cioè da enti locali, un’esperienza non nuova che ebbe in un altro sindaco di Firenze, 70 anni fa, un grande teorizzatore e promotore: Giorgio La Pira, fine intellettuale cattolico (ne ha scritto su queste pagine Gilberto Bonalumi). Ma i legami tra i Comuni non hanno solo la finalità di un aiuto pratico. Mettono infatti in circolo le energie delle rispettive società civili (dalle associazioni di volontariato alle organizzazioni non governative, dalle scuole ai sindacati) per creare legami e favorire la pace. È una forma di solidarietà diretta, che bypassa lo Stato centrale e i rischi delle lungaggini burocratiche, senza però contrapporsi ad esso. Si tratta di una relazione «win to win»: sia chi riceve che chi dona guadagna qualcosa.

Nella Bergamasca ci sono Comuni che hanno fatto esperienza di sostegno a progetti per il Sud del mondo. La cooperazione decentrata ha però una caratteristica particolare: crea rapporti nei vari ambiti (dalla scuola alle comunità religiose, dai sindacati alle istituzioni pubbliche) per ridare forza a città infragilite dalla guerra e dalla povertà, ricevendo in cambio una spinta a muovere le coscienze indicando strade percorribili per non restare spettatori delle tragedie che colpiscono periodicamente terre lontane o vicine come l’ Ucraina e prima ancora la Bosnia. E proprio nel martoriato Paese della ex Jugoslavia, negli anni ’90 la nostra comunità è stata protagonista di una presenza significativa di una ventina fra associazioni di volontariato, enti privati e pubblici, sotto il cartello del comitato Bergamo-Kakanj. Un impegno iniziato durante la guerra e proseguito nel post conflitto, attraverso la ricostruzione materiale ma anche sociale di un luogo scosso dal male. Per tanti giovani fu un’esperienza di formazione e il suo lasciato ha permesso il successo di un progetto promosso dalla Caritas diocesana, da Palafrizzoni e dalla Cgil di Bergamo (co-referenti) insieme ad associazioni del nostro territorio, all’ambasciata italiana in Bosnia e con il supporto di partner globali: è stata aperta ed è abitata a Kakanj una casa, prima esperienza di accoglienza stanziale per richiedenti protezione internazionale sulla rotta balcanica percorsa dai migranti.

Il modello di cooperazione decentrata adottato nella ex Jugoslavia fu poi replicato in Kosovo, a Peje, dove è stato possibile anche far rientrare profughi serbi in una città albanese lavorando sulla pacificazione dei rapporti. Oggi attraverso un gemellaggio il nome di Bergamo è legato anche a Bucha, cittadina a 30 chilometri da Kyiv diventata suo malgrado il simbolo della martoriata Ucraina. Lì il Cesvi, organizzazione non governativa nata nella nostra terra, ricostruisce scuole e garantisce assistenza psicologica ai sopravvissuti all’eccidio. Le comunità locali e gli enti che le rappresentano hanno il potere di contribuire a curare le ferite del mondo, di costruire legami per la pace, non fra Stati ma fra persone. Non è poco.

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