L'Editoriale
Mercoledì 16 Ottobre 2019
I bambini della Siria
vittime innocenti
Chissà se qualcuno si ricorderà di lui. Muhammed Yusuf Hussein aveva 12 anni e camminava con la sorella Sarah, di 7 anni, in una strada vicina alla sua casa. Un colpo di mortaio turco l’ha ucciso e ha strappato una gamba a sua sorella. Erano le ore iniziali dell’offensiva voluta da Recep Erdogan e Muhammed è stato il primo dei bambini a cadere in questa guerra. Chissà quanti altri innocenti hanno diviso la sua sorte, dopo otto giorni di combattimenti e di bombardamenti sempre più vicini ai grandi centri abitati della Siria del Nord-Est, da Kobane a Qamishli, e dopo che le autorità militari turche hanno vantato la «neutralizzazione» di 500 combattenti curdi, uccisi, feriti o presi prigionieri.
.Il piccolo Muhammed è andato così ad aggiungersi alla «generazione perduta», alle tante vittime indifese della guerra in Siria. Lui stesso era poco più «grande» della violentissima crisi politica e militare cominciata nel 2011. Fino al gennaio 2014, quando smise di calcolare i morti, l’Onu aveva censito quasi 9 mila bambini e ragazzi uccisi da bombe e pallottole. Nel 2017, un rapporto di Save the Children calcolava che almeno 3 milioni di bambini siriani non avevano conosciuto altro che la guerra, mentre uno su quattro dei minori siriani era a rischio di turbe mentali per gli choc subiti e più di metà degli adolescenti ricorreva alle droghe per superare la paura e la tensione.
Dobbiamo ricordare Muhammed con tutte le vittime precedenti perché questa spedizione turca non è che la pagina più recente della guerra che da otto anni insanguina questa parte del Medio Oriente. Gli obiettivi del musulmano sunnita Erdogan non sono cambiati: soggiogare i curdi e, nel farlo, smembrare la Siria controllata dal regime del musulmano sciita Bashar al-Assad, sottraendole una parte importante del territorio, quella tra l’altro in cui si trovano i maggiori giacimenti di petrolio. E nemmeno i suoi metodi sono cambiati: l’esercito ma soprattutto le milizie inclini al terrorismo, che da molti anni sostiene e finanzia.
Erdogan non è cambiato. Siamo noi che ci accorgiamo solo ora, per simpatia nei confronti dei curdi, di che cosa abbia davvero significato il coinvolgimento della Turchia nella crisi siriana. I miliziani che sulla strada per Kobane hanno massacrato Hevrin Khalaf, leader del Partito (curdo) siriano del futuro e attivista per i diritti delle donne, sono gli stessi che fino a qualche settimana fa venivano pudicamente definiti «ribelli» e ai quali volentieri si univano giornalisti di ogni parte del mondo.
Di Erdogan e delle sue azioni non possono far finta di sorprendersi nemmeno i vertici della politica internazionale. La Turchia non si sarebbe mossa se non avesse potuto contare sull’assenso degli Usa (e questo è chiaro fin dall’inizio), sulla comprensione della Russia e sull’impotenza dell’Europa. Per Donald Trump la «questione curda» non è decisiva. Ha sposato la tesi che il vero pericolo in Medio Oriente è costituito dall’Iran, quindi il dilagare dei sunniti turchi nella Siria del Nord, e nelle aree ove le milizie sciite che in Siria hanno combattuto per Assad potrebbero entrare in contatto con quelle che in Iraq hanno combattuto contro l’Isis, non lo turba più di tanto. Anzi. Vladimir Putin, a sua volta, ha stabilito da tempo buoni rapporti con Erdogan e non vuole certo mettere a rischio tale apertura strategica. Il governo di Damasco ha fatto avanzare l’esercito verso Nord ma le sue mosse, di certo concordate con Mosca, sembrano dettate non tanto dalla volontà di impegnare battaglia contro i turchi ma piuttosto dal desiderio di trarre profitto dalla crisi dei rapporti tra i curdi e gli americani. Per dirla tutta, non ci stupiremmo se il tutto, infine, portasse Siria e Turchia, sotto la regia della Russia, a spartirsi il territorio prima controllato dai curdi, con guadagno limitato ma sicuro per entrambe.
Dell’Europa è quasi inutile parlare. A otto giorni dall’inizio dell’attacco turco nessuna decisione concreta, solo un gran parlare e nessuna azione coordinata per dare una risposta almeno simbolica alla Turchia. Nel 2014 l’Unione Europea impiegò esattamente otto giorni per decidere di varare sanzioni economiche contro la Russia per i fatti di Crimea. Ennesima dimostrazione che le annessioni violente di territorio altrui e il rispetto dei diritti umani hanno significati diversi a seconda delle latitudini e delle convenienze politiche ed economiche del momento.
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