Guerra e pace in Ucraina, ambiguità italiane

ITALIA. In politica a volte serve sdoppiarsi, come diceva Giulio Andreotti, e Giorgia Meloni si dimostra un’equilibrista senza paura: l’Italia non perde occasione per ribadire il suo sostegno a Zelensky, con ben 2,7 miliardi di euro già destinati a Kyiv.

«Il nostro Paese continuerà a sostenere l’Ucraina nella lotta per la libertà e la democrazia», ha detto, mettendo in chiaro che la pace - quella vera, non una mera tregua di facciata - deve essere giusta e duratura. Eppure, non disdice di spalleggiare la linea di chi, come Donald Trump, vuole trattare direttamente con Putin, partecipando a incontri internazionali e persino a convention repubblicane in America, dove il teatro della politica dei falchi diventa spesso l’unica scena possibile.

I suoi colleghi di maggioranza sembrano aver scelto una strada diversa. Matteo Salvini, vicepremier e leader della Lega, non si fa scrupoli: sostiene con veemenza le iniziative di Trump con la Russia per porre fine alla guerra, nonostante le vecchie accuse - mai provate - di rapporti speciali con Mosca. L’altro vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, ministro degli Esteri a capo di Forza Italia, incarna invece l’europeista per eccellenza, anche se fa parte dello stesso governo che, oltre a finanziare in denaro e armi l’Ucraina, ha aderito alle sanzioni alla Russia varate da Bruxelles. Con la sua visione, l’unica via d’uscita passa per negoziati che coinvolgano Stati Uniti, Ucraina e Unione europea, e per l’ausilio - se necessario - di una forza di peacekeeping delle Nazioni Unite, in grado di garantire stabilità in una regione troppo a lungo martoriata dai conflitti.

Le «anime» dell’opposizione

Non che all’opposizione si brilli per coerenza. Elly Schlein, a capo del Partito democratico, ha promesso cambiamenti radicali, ma il partito, in un certo senso, ha cambiato lei. Pur essendo a favore dell’invio di armi, la leader Dem si mostra spesso in piazza a difesa di una pace che non divori la speranza di un domani diverso, anche se questo atteggiamento ambivalente lascia perplessi alcuni suoi stessi alleati di partito. E poi c’è Giuseppe Conte, che dal Movimento 5 Stelle non risparmia critiche a destra e a sinistra. L’avvocato del popolo ha votato contro le sanzioni e contro i finanziamenti a Kiyv, da una posizione tutto sommato «comoda», non avendo responsabilità di governo, finendo per convergere con il suo ex alleato Salvini sull’approccio diretto di Trump e accusando l’Occidente di una propaganda bellicista. Meloni, a suo avviso, avrebbe potuto fare dell’Italia una protagonista nei negoziati internazionali invece di allinearsi con le cancellerie straniere.

Giorgia Meloni, sul filo del rasoio

Nel complesso, l’Italia si trova a destreggiarsi tra equilibri precari e dichiarazioni altisonanti, in un conflitto che sembra non voler lasciare tregua. Mentre l’Europa osserva e, in qualche modo, media, il vero ruolo da assumere da parte dell’Italia resta ancora tutto da definire. Fatto sta che Giorgia, premiata dai sondaggi per la sua capacità di camminare sul filo del rasoio, si ritrova oggi a oscillare fra due mondi apparentemente inconciliabili. Come detto, da un lato c’è l’alleanza con Trump, quella stessa che le ha permesso di partecipare a eventi come la Conservative political action conference a Washington, ribadendo il suo impegno per una pace che non conosca compromessi di facciata. Da quell’altra parte, il peso delle istituzioni europee, che richiede un approccio più sobrio e ponderato. Nonostante il suo noto euroscetticismo, Meloni non ha chiuso la porta all’Unione europea, anzi. Ha persino avanzato proposte che richiamano il passato glorioso, come quella di fare di Roma la capitale simbolica del Vecchio continente, a testimonianza di un’Italia che sa da dove viene e dove vuole andare. La sua presenza costante agli incontri con i leader europei, compreso il vertice informale di Macron all’Eliseo dei capi di governo degli Stati membri e della von der Leyen, evidenzia l’impegno a mantenere relazioni costruttive, pur in un contesto globale in cui ogni mossa è sottoposta a scrutinio.

Gli scenari del governo

In sintesi, Meloni si trova, ancora una volta, a dover scegliere tra l’alleanza che ricorda i tempi in cui il dialogo diretto con l’amico americano era d’obbligo e l’impegno nel quadro europeo, che pur criticabile, rappresenta per molti un faro di stabilità. In questo senso, la premier sembra un’allieva andreottiana. Il futuro della politica italiana dipenderà, in ultima analisi, dalla capacità machiavellica di mantenere questa politica dei due forni. In attesa che, forse, qualcuno un giorno la obblighi a scegliere da che parte stare.

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