Governatori, il no al terzo mandato e i malumori

POLITICA. Il Senato ha respinto la proposta della Lega di consentire ai governatori regionali di candidarsi anche dopo il secondo mandato. Solo i renziani hanno votato a favore dell’emendamento che Salvini si è rifiutato di ritirare nonostante i ripetuti inviti a farlo da parte di FdI e Forza Italia che erano contrari: la Lega è andata avanti per la sua strada ed è stata bocciata e isolata.

Il leader del Carroccio nega che adesso ci saranno ricadute negative sul governo e sui rapporti tra alleati. Questa però è la parte ufficiale delle dichiarazioni leghiste: la sostanza è che Salvini avrebbe voluto conservare ai suoi governatori, e soprattutto al veneto Zaia, la possibilità di restare al loro posto ancora per anni per due buone ragioni: primo, per bloccare le mire espansionistiche di FdI (che si sono già espresse in Sardegna con l’imposizione della candidatura del sindaco meloniano di Cagliari al posto dell’uscente Christian Solinas spinto da Salvini) che vuole riequilibrare nelle regioni i rapporti di forza dentro la coalizione che sono rimasti a quando FdI era un piccolo partito e la Lega sedeva su un forziere carico del 30% dei voti.

Seconda ragione, mai confessata, per mantenere Zaia in Laguna per evitare che, una volta libero da incarichi, abbia la tentazione di provare la scalata alla segreteria del partito, soprattutto nel caso in cui le elezioni europee di giugno per il Carroccio andassero male (cioè sotto la soglia psicologica dell’8%). Ecco perché Salvini ha insistito tanto pur sapendo che gli interessi dei suoi alleati erano contrapposti ai suoi. È probabile che il capo leghista si aspettasse di ricevere una sponda dal Pd contando sul fatto che la tagliola del terzo mandato esclude esponenti dem di peso come Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Stefano Bonaccini, tutti interessati a rimanere al loro posto, e sbarra la strada per esempio al sindaco di Bari Antonio Decaro che, lasciando il Comune, mira alla Regione Puglia. Tutta gente che dovrà rivedere i suoi piani ma di sicuro non l’ha presa bene: la decisione però l’ha assunta Elly Schlein. Si tratta di esponenti democratici perlopiù dell’area riformista che sono - chi più chi meno - lontani dalla segretaria o suoi espliciti avversari. Pare che il Pd sia arrivato alla decisione di votare «no» solo dopo vari maldipancia, e si capisce perché, ma alla fine si è scelto di assumere la stessa posizione del M5S: mai il terzo mandato.

A guardare i numeri, se l’opposizione avesse votato dalla parte di Salvini avrebbe inflitto una sconfitta a Meloni e Tajani rendendo clamorosa una spaccatura della maggioranza che oggi invece vale solo come penale per Salvini. Ma evidentemente i calcoli interni al Partito democratico e le tattiche - scoperte o sotterranee - di Giuseppe Conte hanno condotto le cose in un modo tale da risultare un vero e proprio vantaggio per la presidente del Consiglio nella corsa elettorale con Salvini che invece deve mandare giù un rospo.

Certo, adesso si tratta di vedere come andranno le elezioni in Sardegna: se il candidato imposto da FdI Paolo Truzzu dovesse perdere con la contiana Alessandra Todde (sostenuta dal cosiddetto «campo largo» del centrosinistra) Salvini sicuramente avrebbe più di un argomento da gettare sul tavolo delle trattative con i suoi alleati. La Todde ha la spina nel fianco della candidatura dell’ex governatore Renato Soru che pare possa portarle via più del 10% di voti ma ciononostante è ad un’incollatura da Truzzu: la riconquista della Sardegna da parte del centrosinistra non potrebbe non avere conseguenze sul quadro politico generale.

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