L'Editoriale
Giovedì 17 Marzo 2022
Gli sforzi diplomatici sono diventati concreti. Ma la tragedia continua
Anche ieri, a proposito dell’Ucraina, abbiamo dovuto valicare l’agghiacciante paradosso che sta diventando abituale. A Mariupol’ le bombe abbattono un teatro che serviva da rifugio ai civili, a Cernihiv è strage di uomini e donne in coda per il pane, a Odessa piovono bombe dal mare, in tutta l’Ucraina dell’Est si combatte e si muore. Inesorabile e massiccia, l’offensiva russa si dipana con la lentezza e il peso di un pachiderma. Gli ucraini si battono bene ma pian piano arretrano, e non a caso Joe Biden, dopo il discorso churchilliano di Volodymyr Zelensky al Congresso Usa («Abbiamo una Pearl Harbour e un 11 Settembre tutti i giorni»), promette più aiuti militari, soprattutto armi che aiutino gli ucraini a contrastare la superiorità aerea dei russi.
Intanto, nelle capitali, Kiev e Mosca comprese, si discute di modelli. Quello austriaco, quello svedese, quello finlandese. È il prezzo da pagare agli sforzi diplomatici, che finalmente sono diventati professionali e concreti. Basta con le delegazioni piene di personaggi di seconda fila, gli uni travestiti da ambasciatori e gli altri da guerriglieri. Basta con gli appuntamenti inutili come quello di Antalya, dove i ministri degli Esteri Lavrov (russo) e Kuleba (ucraino) si sono incontrati quasi solo per non rovinarsi i rapporti con il padrone di casa, il leader turco Erdogan.
Adesso si tratta in silenzio, e sarebbe interessante sapere quale ruolo stanno giocando Usa e Cina. Nel breve termine traggono indubbi vantaggi politici da questa guerra insensata, ma nel medio e lungo termine potrebbero scoprire difficoltà impreviste. Cresce l’attenzione per lo yuan cinese (India e Russia vogliono adottarlo come valuta di riferimento per i loro traffici, l’Arabia Saudita ipotizza di farsi pagare dalla Cina in yuan il petrolio esportato) a discapito del dollaro. E la globalizzazione così cara alle politiche economiche di Xin Jinping stenta, con queste spaccature tra Est e Ovest.
Si diceva dei modelli. Questo o quello più o meno pari sono, perché entrambi vogliono ciò che all’altro pare inaccettabile. La Russia vuole un’Ucraina neutrale e disarmata, quindi inerme, e che non si parli di Donbass o di Crimea. L’Ucraina vuole la Russia fuori da qualunque lembo della sua terra e un patto che impegni Usa, Turchia e Ue a difenderla in caso di nuova minaccia russa. Spunta la solita indiscrezione americana (se uno credesse a questa storia delle indiscrezioni dovrebbe anche pensare che le istituzioni Usa sono le più porose del mondo) secondo cui è pronto un documento in quindici punti che dovrebbe servire da base per un incontro tra Putin e Zelensky. Chissà. Resta il fatto che anche un duro come il ministro russo Lavrov ha mandato segnali positivi, quindi vien da credere che qualcosa, da qualche parte, stia davvero succedendo. Passerà altro tempo, però, e sul campo di battaglia il tempo che passa è una tragedia.
Le voci sui progressi della diplomazia hanno subito avuto un effetto positivo sulle Borse e sui prezzi delle materie prime. Cinico ma inevitabile. E l’Europa che si preoccupa per gas e petrolio, dovrà prima o poi occuparsi dei milioni di profughi che arrivano dall’Ucraina. Tre milioni per ora, dei quali 47mila in Italia. La solidarietà immediata è bellissima, ma c’è un’idea per il dopo? Per il momento in cui scopriremo che non tutti vorranno tornare in un’Ucraina già povera e ora disastrata dal conflitto? In quell’Ucraina che già prima aveva sei milioni di migranti economici e che ora rischia di perdere le migliori risorse umane che le fossero rimaste?
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