![Gli sfollati in Palestina hanno improvvisato un campo per la notte nella scuola delle Nazioni Unite di Khan Younis Gli sfollati in Palestina hanno improvvisato un campo per la notte nella scuola delle Nazioni Unite di Khan Younis](https://storage.ecodibergamo.it/media/photologue/2023/10/20/photos/cache/gli-aiuti-umanitari-un-dovere-non-unarma_ffc65a50-7169-11e_C1whNyy_v3_large_libera.webp)
(Foto di ansa)
ESTERI. I 37 camion di aiuti umanitari che sabato e domenica sono entrati nella Striscia di Gaza dal valico egiziano di Rafah, rappresentano una goccia nel mare di bisogni dei 2,3 milioni di abitanti intrappolati fra bombardamenti e divieti di fuga, se non all’interno della lingua di terra che si affaccia sul Mediterraneo.
Si dice a ragione che i palestinesi non sono Hamas ma la reazione del governo Netanyahu all’abominio degli attentati terroristici del 7 ottobre ha i connotati di una punizione collettiva. Che scopo ha aver chiuso l’elettricità lasciando la Striscia al buio, aver interrotto i rifornimenti di cibo e di acqua potabile? Forse costringere un milione di persone a lasciare il nord - dove l’esercito israeliano dovrebbe penetrare a breve - per raggiungere il sud: ma qui non erano stati approntati campi di accoglienza e il necessario per sopravvivere. Oltretutto fra gli sfollati molti sono bambini (il 40% della popolazione di Gaza ha meno di 14 anni). I funzionari della Mezzaluna Rossa, che hanno preso in carico i beni arrivati da Rafah, ricordano che prima della nuova, drammatica pagina della guerra, entravano mediamente nella Striscia 450 camion di aiuti al giorno: il carico di sabato rappresenta appena il 4% di ciò che servirebbe. Un esempio: le 44mila bottiglie d’acqua inviate dall’Unicef sono fondamentali ma hanno coperto le necessità di 22mila persone per un solo giorno. «Con un milione di bambini a rischio, l’acqua è questione di vita o di morte, i bisogni restano immediati ed immensi» ha affermato Catherine Russell, direttore esecutivo dell’Unicef. Largamente insufficienti anche le medicine e le strumentazioni arrivate e destinate agli ospedali, pieni di feriti e di sfollati che cercano riparo dai bombardamenti: sette sono prossimi al collasso e quattro sono già stati costretti a chiudere. E tra gli aiuti non c’è il carburante, necessario a far funzionare i generatori per tenere in vita i pazienti nelle terapie intensive.
Dal punto di vista della reazione militare, le ristrettezze umanitarie non hanno senso. A meno che si pensi che esista una contiguità ideologica e operativa fra gli abitanti e il movimento islamista, smentita da una recente ricerca e da proteste pubbliche avvenute cinque settimane fa contro la cattiva gestione amministrativa da parte di Hamas. In ogni caso lasciare le persone senza acqua e cibo sta producendo nuovo risentimento. Non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania dove in questi giorni si sono tenute manifestazioni a sostegno dell’organizzazione responsabile degli attacchi del 7 ottobre e contro l’Autorità palestinese (Anp) che governa questa parte dei territori occupati.
Va ricordato che erano arrivati appelli da diverse leader, da Papa Francesco al presidente americano Joe Biden, a favore del sostegno umanitario non sporadico ai gazesi. E mentre infuria la guerra è lecito porsi domande sul dopo: chi governerà la Striscia se Hamas verrà sbaragliata? L’Anp, indebolita, non ha la forza sufficiente. L’ex primo ministro israeliano ed ex generale Ehud Barak ha proposto l’affidamento a un contingente civile e militare internazionale, che si occuperebbe della ricostruzione e di ripristinare un’economia almeno di sussistenza. I dati forniti dall’ultimo rapporto della conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo indicano che il 36% della popolazione palestinese vive al di sotto della soglia di povertà e che in un anno l’insicurezza alimentare è aumentata dal 9 al 23% in Cisgiordania e dal 50 al 53% a Gaza. Del resto il commercio e l’economia hanno bisogno per loro natura di territori aperti e non chiusi perché vivono di scambi.
Nel lungo periodo la soluzione più coraggiosa e più giusta è quella dei «due popoli, due Stati». Ci vorrà molto tempo ma non si vede altro sbocco per una pace vera. Israeliani e palestinesi possono convivere: accade già oggi in associazioni e gruppi di persone che condividono dolori e aspettative. Non è un’utopia.
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