Gli aiuti umanitari, un dovere non un’arma

ESTERI. I 37 camion di aiuti umanitari che sabato e domenica sono entrati nella Striscia di Gaza dal valico egiziano di Rafah, rappresentano una goccia nel mare di bisogni dei 2,3 milioni di abitanti intrappolati fra bombardamenti e divieti di fuga, se non all’interno della lingua di terra che si affaccia sul Mediterraneo.

Si dice a ragione che i palestinesi non sono Hamas ma la reazione del governo Netanyahu all’abominio degli attentati terroristici del 7 ottobre ha i connotati di una punizione collettiva. Che scopo ha aver chiuso l’elettricità lasciando la Striscia al buio, aver interrotto i rifornimenti di cibo e di acqua potabile? Forse costringere un milione di persone a lasciare il nord - dove l’esercito israeliano dovrebbe penetrare a breve - per raggiungere il sud: ma qui non erano stati approntati campi di accoglienza e il necessario per sopravvivere. Oltretutto fra gli sfollati molti sono bambini (il 40% della popolazione di Gaza ha meno di 14 anni). I funzionari della Mezzaluna Rossa, che hanno preso in carico i beni arrivati da Rafah, ricordano che prima della nuova, drammatica pagina della guerra, entravano mediamente nella Striscia 450 camion di aiuti al giorno: il carico di sabato rappresenta appena il 4% di ciò che servirebbe. Un esempio: le 44mila bottiglie d’acqua inviate dall’Unicef sono fondamentali ma hanno coperto le necessità di 22mila persone per un solo giorno. «Con un milione di bambini a rischio, l’acqua è questione di vita o di morte, i bisogni restano immediati ed immensi» ha affermato Catherine Russell, direttore esecutivo dell’Unicef. Largamente insufficienti anche le medicine e le strumentazioni arrivate e destinate agli ospedali, pieni di feriti e di sfollati che cercano riparo dai bombardamenti: sette sono prossimi al collasso e quattro sono già stati costretti a chiudere. E tra gli aiuti non c’è il carburante, necessario a far funzionare i generatori per tenere in vita i pazienti nelle terapie intensive.

Dal punto di vista della reazione militare, le ristrettezze umanitarie non hanno senso. A meno che si pensi che esista una contiguità ideologica e operativa fra gli abitanti e il movimento islamista, smentita da una recente ricerca e da proteste pubbliche avvenute cinque settimane fa contro la cattiva gestione amministrativa da parte di Hamas. In ogni caso lasciare le persone senza acqua e cibo sta producendo nuovo risentimento. Non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania dove in questi giorni si sono tenute manifestazioni a sostegno dell’organizzazione responsabile degli attacchi del 7 ottobre e contro l’Autorità palestinese (Anp) che governa questa parte dei territori occupati.

Va ricordato che erano arrivati appelli da diverse leader, da Papa Francesco al presidente americano Joe Biden, a favore del sostegno umanitario non sporadico ai gazesi. E mentre infuria la guerra è lecito porsi domande sul dopo: chi governerà la Striscia se Hamas verrà sbaragliata? L’Anp, indebolita, non ha la forza sufficiente. L’ex primo ministro israeliano ed ex generale Ehud Barak ha proposto l’affidamento a un contingente civile e militare internazionale, che si occuperebbe della ricostruzione e di ripristinare un’economia almeno di sussistenza. I dati forniti dall’ultimo rapporto della conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo indicano che il 36% della popolazione palestinese vive al di sotto della soglia di povertà e che in un anno l’insicurezza alimentare è aumentata dal 9 al 23% in Cisgiordania e dal 50 al 53% a Gaza. Del resto il commercio e l’economia hanno bisogno per loro natura di territori aperti e non chiusi perché vivono di scambi.

Nel lungo periodo la soluzione più coraggiosa e più giusta è quella dei «due popoli, due Stati». Ci vorrà molto tempo ma non si vede altro sbocco per una pace vera. Israeliani e palestinesi possono convivere: accade già oggi in associazioni e gruppi di persone che condividono dolori e aspettative. Non è un’utopia.

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