L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 19 Giugno 2019
Giustizia, no a riforme dettate dalla pancia
politica
Il mondo giudiziario sta vivendo in questo periodo storico una crisi senza precedenti in grado di minare l’in sé delle sue funzioni. Dal momento in cui al Consiglio Superiore della Magistratura è stato assegnato il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario da possibili interferenze del potere politico, è una contradictio in adiecto constatare che proprio alcuni esponenti del menzionato organo di autogoverno si rendano in qualche modo parti di un «intreccio» politico.
La situazione svuota di contenuti la ragion d’essere dell’istituzione del Csm, e la circostanza è ancor più rilevante ove si ponga mente che quel che viene in gioco non è solo l’autonomia della magistratura, ma anche la sua stessa capacità di essere, oltre che di apparire, terza e imparziale. Tali requisiti non costituiscono inutili attributi, bensì l’essenza della funzione giurisdizionale; in altre parole, senza di essi non vi è giurisdizione, ledendosi, in tal modo, valori fondanti il potere di ius dicere. Ne deriva un’ulteriore accentuazione di quella endemica crisi della giustizia, la quale viene avvertita dal cittadino sempre più come un qualcosa verso cui non si può nutrire fiducia. Bisogna inoltre fare attenzione anche alle conseguenti iniziative politiche che potrebbero prendere spunto dal momento di disorientamento per varare riforme non in linea con il precetto costituzionale.
E qui occorre esser chiari: l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono un valore di tutti; e in ogni caso se si intende porre riparo ad alcune distorsioni operative, occorre farlo nel rispetto della Costituzione. E siccome quest’ultima, con l’articolo 111, impone un giudice distinto e distante dalle parti e dall’oggetto del processo, risulta necessario allineare il dato normativo, pervenendo a un’organica separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero al quale, sia ben chiaro, occorre riconoscere adeguate garanzie di autonomia e indipendenza; garanzie, già del resto, tutelate in via mediata dall’obbligo di esercizio dell’azione penale contemplato dall’articolo 112 della Costituzione.
Se quindi l’intento politico è sinceramente riformatore, non ha senso annunciare modifiche del processo penale. La materia su cui è improcrastinabile un intervento è l’ordinamento giudiziario e il riassetto del Consiglio Superiore della Magistratura, il quale deve essere sottratto a patologie correntizie. Bisogna «rinforzare» gli illeciti disciplinari e modificare le forme della relativa giustizia, che dev’essere amministrata da un organo indipendente e non domestico. Il tutto ovviamente facendo attenzione a non porre in pericolo le garanzie che la Carta dei valori riserva al magistrato. Si potrebbero per esempio «esternalizzare» le funzioni di giustizia disciplinare a un autonomo organo composto non solo da magistrati ma anche e soprattutto da professori universitari a tempo pieno.
Per concludere, a fronte di un contesto così grave desterebbe grande preoccupazione che le scelte di una «reazione» legislativa fossero affidate a pochi «intimi». Riforme che incidono sui punti nevralgici dell’equilibrio ordinamentale non possono essere varate senza una condivisione ragionata dei contenuti con i settori operativi del mondo giudiziario e con la stessa Accademia. In caso contrario, il rischio è che l’emotività del momento possa condurre ad opzioni fortemente criticabili e non rispettose del comando costituzionale.
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