Giustizia, l’impossibile riforma condivisa

Il commento. In Italia una riforma organica della giustizia con il consenso di due poteri dello Stato, Parlamento e magistratura, pare impossibile. Si tratta infatti di un nervo scoperto. Peraltro andrebbe accompagnata da una ridefinizione del sistema penitenziario, tenendo conto dello stato pietoso delle nostre carceri: in molti casi ospitate in edifici vecchi, sovraffollate e dove quest’anno sono stati compiuti 78 suicidi.

Luoghi che non corrispondono al dettame dell’articolo 27 della Costituzione, per il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il governo Meloni ha ridotto i fondi destinati a questa piaga italiana. Il presidente del Consiglio si è definita «garantista nel processo, giustizialista nella pena»: una posizione contraddittoria, perché spesso è proprio nelle modalità di esecuzione della condanna che non viene rispettato il principio sancito nella Carta.

A far risalire la tensione sono state le parole pronunciate nei giorni scorsi in Commissione giustizia del Senato dal ministro Carlo Nordio, già Procuratore a Venezia, delineando i cardini di una nuova riforma: limitare le intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche per «evitare che la diffusione selezionata e pilotata divenga strumento di delegittimazione personale e spesso politica». Il numero di intercettazioni in Italia, ha ricordato il Guardasigilli, «è di gran lunga superiore alla media europea, con un costo molto elevato di centinaia di milioni di euro»; riforma sulla separazione delle carriere dei magistrati perché «non ha senso che il pubblico ministero appartenga al medesimo ordine del giudice svolgendo un ruolo diverso»; revisione del ruolo del pm «perché l’azione penale si è convertita in intollerabile arbitrio, con l’uso della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa»; depenalizzazione dei reati minori per evitare il ricorso al carcere sanzionandoli invece attraverso pene alternative; revisione dell’abuso d’ufficio, anche su impulso dei sindaci; il ministero si sta poi «attivando per limitare i tagli della legge di bilancio e devolvere al sistema carcerario eventuali residue risorse disponibili». Residue non è sufficiente e non si comprende come lo stesso governo abbia potuto con una mano tagliare e con l’altra cercare ora di ripristinarne una parte dei fondi.

Oltre al record inquietante dei suicidi in cella (senza calcolare quelli sventati dalla polizia penitenziaria), l’Italia è tra i Paesi europei che più ricorrono alla carcerazione preventiva: oggi sono in questa condizione il 35-40% dei detenuti (non ancora condannati) e secondo la media storica, la metà verrà poi assolto o prosciolto. Giovanni Falcone definiva invece l’obbligatorietà dell’azione penale «un feticcio» e oggi è violata per la mole di fascicoli sulle scrivanie dei pm, costretti di fatto a scegliere su quali procedere.

Se Nordio ha toccato nervi scoperti, ci sono due aspetti che non si possono tacere. Il primo riguarda la tempistica: l’attuazione della riforma Cartabia è stata rinviata al 30 dicembre e già si annunciano novità correndo il rischio di ingenerare confusione in un settore che avrebbe bisogno invece di chiarezza. Gli annunci del ministro hanno anche un intento politico, una prova muscolare per rinsaldare la maggioranza e tenere aperto il dialogo con il Terzo polo. Non tutte le critiche sono però corporative e strumentali. L’avvocato penalista Franco Coppi, principe del foro, ha ricordato che «occorre una riforma completa che velocizzi la macchina. Tra i punti c’è sicuramente da rivedere l’udienza preliminare, che si è risolta in un fallimento, dove non c’è un effettivo spazio per le difese. Meglio andare direttamente al dibattimento. Oggi a Roma tra udienza preliminare e inizio del processo passa anche un anno. Ad allungare i tempi ci si mette pure il fatto che il giudice del processo non può conoscere gli atti dell’istruttoria». Secondo il legale poi «il problema non è la separazione delle carriere, ma separare le persone intelligenti da quelle che non lo sono. Una persona perbene e preparata sa come deve comportarsi da pm e da giudice». Considerazione che chiama in causa la coscienza dei magistrati.

Ma esiste un problema di ordine culturale anche in altri ambiti. Ad esempio ci sono già norme che regolano l’utilizzo delle intercettazioni, non rispettate dalle fonti e dai media che ne vengono in possesso, quando pubblicano dialoghi telefonici non penalmente rilevanti per assecondare le pruderie del pubblico ma rovinando la reputazione di persone nemmeno indagate. L’avviso di garanzia da una parte dei cittadini e dei politici è percepito ancora come condanna anticipata. Falcone ci ricorda invece che «non è una coltellata, ma un passaggio nell’interesse dell’indiziato». Il grande giudice ucciso dalla mafia non andrebbe solo ricordato, ma anche letto e mantenuto attuale.

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