Francia, Macron l’europeista. Un voto che ci riguarda

La guerra in Ucraina sta modificando i termini del conflitto politico in Europa? Non ci può essere una sola risposta, perché in definitiva ogni Paese racconta una storia propria, specie se al centro c’è il futuro della Francia «eterna». Fin qui sappiamo che le recenti elezioni in Ungheria hanno premiato per la quarta volta Orban, l’amico di Putin, mentre nel caso della Francia le convergenze parallele fra l’estrema destra e lo zar di Mosca, per quanto attenuate, paiono sfavorevoli a Marine Le Pen. La partita d’andata è stata vinta da Macron e per quella di ritorno, che si svolge oggi, sondaggi parlano di un vantaggio di una decina di punti a favore del presidente uscente.

Speriamo sia così per quello che non è un voto ordinario e che ci coinvolge con una scelta non ambigua, cioè dalla parte della società aperta e democratica: Roma e Parigi hanno firmato da poco il Trattato del Quirinale per regolare le relazioni non sempre facili fra i due Paesi (vedi Libia e non solo), la Francia è il numero due in Europa e l’unica potenza nucleare del continente, oltre la sola a far parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu. I due esecutivi (in Francia il presidente ha poteri di governo), sui temi economici e della geopolitica, la pensano allo stesso modo. In campo ci sono l’europeista Macron, sul quale pesa l’incognita di una Francia profonda arrabbiata, e la sovranista Le Pen: il primo vuole andare avanti, pur con tutte le caratteristiche storiche francesi, la seconda indietro per svuotare dall’interno la Ue. In un panorama di macerie dei partiti tradizionali, gollisti e socialisti, anche se il loro elettorato in libera uscita non è scomparso.

Nell’insorgenza di una sinistra radicale e sovranista, di cui probabilmente solo una piccola parte voterà Macron, turandosi il naso. Nel malessere di una nazione che accomuna pezzi di un’Europa introversa come l’Italia: il rialzo dell’astensionismo, la discesa del potere d’acquisto (tema cavalcato dalla Le Pen), la ribellione dei gilet gialli seguita dalla protesta studentesca, la distanza fra metropoli e periferia, il divario generazionale per cui ecco il paradosso del più giovane presidente della storia repubblicana francese plebiscitato dagli over 60 e bocciato dai giovani. Il tecnocrate Macron, un centrista oltre la destra e la sinistra, la novità attraente di ieri fattasi oggi establishment, ha saputo gestire con competenza e abilità oratoria i dossier più difficili, come il Covid, ma gli è mancata l’empatia con i ceti popolari, una certa lontananza elitaria dalle sofferenze del Paese reale, dalla pandemia sociale, unita all’usura del potere: gli è rimasta appiccicata l’immagine di «presidente dei ricchi». Senza dimenticare l’effetto ottico distorsivo del doppio turno elettorale: se è augurabile l’affermazione di Macron in base al voto «utile» che viene dato razionalmente ai fini della governabilità, il timbro «sincero», la prima scelta dettata dal cuore, è quello del primo turno, là dove l’arcipelago del no e l’area protestataria superano il 50% dell’elettorato.

Più in generale si sa cosa c’è in ballo: gli sviluppi della guerra in Ucraina, lo stop al gas russo, l’ipotesi di un Recovery Plan sull’energia, la discussione che si aprirà in estate sul Patto di stabilità, mentre l’inflazione è tornata alla grande fra noi e i tassi potrebbero salire. Tira una brutta aria da recessione. Macron, anche come presidente di turno dell’Europa, ha impresso un suo dinamismo, esprimendo una leadership esplicita, quel che era mancato alla «riluttante» Merkel: sia nei termini della Difesa comune europea, di sviluppo della gamba europea della Nato, sia nella interlocuzione con Putin, consapevole di una linea rossa invalicabile anche per il mondo occidentale, sia infine nel costruirsi un profilo «terzo» senza appiattarsi sull’identità americana e neppure sul freno della Germania. Il conflitto si va radicalizzando, da qui la necessità di un recupero creativo della diplomazia. I russi sono prossimi alla fase due nel Donbass e si nota un’escalation militare quantitativa e qualitativa con l’invio di armi pesanti all’Ucraina. L’Europa sembra aver abbandonato ogni speranza di mediazione per una soluzione pacifica e punta apertamente alla sconfitta di Mosca, che replica con crimini su crimini.

Le stesse sanzioni incrinano la lealtà europea con la Germania spiazzata, costretta a rimettere in discussione il proprio modello di sviluppo: energia a basso costo dalla Russia e vendita dei prodotti in Cina, lungo l’asse russo-cinese divenuto oggi un incubo. I sintomi di un disallineamento fra europei all’interno della tragedia bellica «chiamano» Macron. Come ben sa la politica italiana. Un’eventuale sconfitta del presidente provocherebbe un effetto domino anche nel resto del continente, a cominciare dall’Italia, dove Lega e Cinquestelle paiono tentati dal rompere la maggioranza, la scorciatoia per lucrare dall’opposizione su posizioni populiste. Fra un Salvini risucchiato nel cono d’ombra dopo gli applausi a Orban e un Conte scivolato nel «né né», addirittura neutrale fra Macron e Le Pen. Viceversa e almeno in teoria, con la sconfitta della destra radicale, potrebbe recuperare un tono la linea atlantista ed europeista. Anche per questo il voto in Francia non ci può lasciare indifferenti.

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