L'Editoriale
Giovedì 24 Agosto 2023
Forza o debolezza, la firma è chiara
MONDO. Per qualche ora, tutto si è giocato sulle parole. Di Yevgeny Prigozhin, fondatore e guida del Gruppo Wagner, il più potente esercito mercenario del mondo, per lunghi anni «attrezzo» fondamentale della politica estera russa soprattutto in Africa, si diceva che era sulla lista (peraltro ristretta: 7 viaggiatori e 3 membri dell’equipaggio) dei passeggeri del velivolo esploso durante il volo da Mosca a San Pietroburgo.
Ma per uno come Prigozhin, abituato a vivere pericolosamente e a proteggersi, essere sulla lista ed essere sull’aereo non era proprio la stessa cosa. E infatti si erano subito diffuse voci che lo davano per imbarcato su un aereo diverso, un altro Embraer Legacy del Gruppo Wagner che era arrivato a San Pietroburgo, aveva sostato per qualche decina di minuti ed era poi tornato a Mosca. Poi è arrivata la conferma: Prigozhin era a bordo, il suo corpo è stato identificato. E con il suo anche quello di Dimitrij Utkin, il capo militare del Gruppo. In sintesi: la Wagner è stata decapitata.
Dal 24 giugno, cioè da quando Prigozhin occupò con i suoi uomini Rostov sul Don, sede avanzata dei comandi che guidano le operazioni russe in Ucraina, e poi tentò un’improbabile ma clamorosa «marcia su Mosca», molti prevedevano una fine cruenta per colui che, un tempo definito con spregio «il cuoco di Putin», era diventato il leader degli hacker russi in fama di onnipotenza (di volta in volta li si accreditò di aver provocato la Brexit, la ribellione della Catalogna e l’elezione di Trump) e poi il capo di un esercito che, dalla Libia alla Repubblica centrafricana, aveva consolidato le mire di penetrazione del Cremlino in Africa. Pochi giorni fa, il sito inglese Bellingcat, sfruttando le connessioni con i servizi anglo-americani, aveva previsto la morte di Prigozhin entro 6 mesi, a dispetto del fatto che solo poche ore prima lo stesso «cuoco» si fosse fatto riprendere, con elmetto e kalashnikov, in Africa mentre annunciava nuove operazioni della Wagner «per la gloria della Russia».
È chiaro che, sia stata la contraerea o una bomba piazzata a bordo a stroncare la vita di Prigozhin e Utkin, il primo indiziato è Vladimir Putin. Non tanto per una questione personale, di vendetta nei confronti di un fedelissimo che aveva osato ribellarsi. È vero, sventato il mezzo golpe, Putin aveva voluto elencare con puntiglio tutti i finanziamenti erogati negli anni al Gruppo Wagner. Un gelido «tu quoque» a colpi di miliardi di rubli, del genere: io ti ho creato e tu mi ricambi così. Ma a contare di più, nel decretare la fine di Prigozhin, sono state la situazione e il momento.
La situazione è lo stato di guerra. Da quando è partita l’invasione dell’Ucraina, tutti gli spazi di obiezione, critica e contestazione sono stati prima compressi e poi di fatto eliminati. Le pene inasprite: per il tradimento si è passati da 25 anni di carcere all’ergastolo, per la «diffusione di notizie false sulle forze armate» (tipo: quel generale non vale niente, oppure: abbiamo perso quel villaggio) si può essere condannati a cinque anni di prigione. Figuriamoci quindi se poteva essere tollerata un’aperta insubordinazione, con una decina di morti, come quella del 24 giugno. E poi il momento. Per molti russi Prigozhin era una specie di eroe, come capita in ogni guerra incarnava il personaggio di colui che vuole solo combattere per la patria, estraneo ai complotti e alle camarille dei generali e dei politici. Però in queste settimane il Cremlino si sente forte, la famosa controffensiva ucraina non porta i frutti sperati e Putin non perde occasione per sbeffeggiare il nemico. Anche nelle scorse ore, ricevendo il governatore ad interim della regione di Luhansk, ha detto che «il regime di Kiev manda i soldati nei campi minati e sotto l’artiglieria russa come se non fossero del suo stesso popolo». In altre parole, Putin deve aver pensato che il clima generale consentisse di sbarazzarsi di Prigozhin, ancora popolare ma ormai inaffidabile e scomodo.
Dalla Politkovskaja (uccisa nel 2006) a Nemtsov (2015) si tende ad attribuire a Putin ogni sorta di omicidio eccellente. Molte di tali ipotesi sono discutibili o forzate. Ma sulla fine di Prigozhin c’è la firma del Cremlino. E le prossime settimane ci diranno se si tratta di un segnale di forza o di debolezza.
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