Fine vita, non esiste un diritto a morire

ITALIA. Suicidio assistito: cosa cambia? I giudici costituzionali hanno stabilito, nei giorni scorsi, che tale pratica è «un’eccezione e non una regola». La regola è la tutela della vita, l’eccezione è la sua interruzione.

Pertanto bisogna fare il possibile perché malati e persone fragili abbiano tutta l’assistenza medica necessaria e possano accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore come previsto dalla legge 38 del 2010. Tuttavia - ed ecco l’eccezione - in presenza di irreversibilità della patologia, sofferenze fisiche o psicologiche che il paziente reputa intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli è possibile interrompere le cure e «aiutarlo a morire» senza conseguenze penali (sentenza 242 del 2019).

La prima considerazione riguarda la distinzione tra «diritto a morire» che la Corte non riconosce e la libertà del paziente di decidere quali trattamenti fare o rifiutare garantita dalla stessa Costituzione (art. 32). Per lo Stato se si riconosce un «diritto» esso va poi garantito a tutti, invece la libertà è un desiderio personale che non comporta l’obbligo di assecondarlo. La saggezza umana e la buona prassi medica ci dicono però che anche il «desiderio di morire» va compreso, aiutando il malato a non soffrire, ma soprattutto accompagnandolo con la vicinanza e il sostegno spirituale. Questo perché la persona non perde mai la sua dignità e il diritto di poter vivere fino in fondo la propria esistenza, senza sentirsi in dovere di andarsene solo perché esiste una legge che lo consente. La vera questione riguarda i «trattamenti di sostegno vitale» che a seguito della loro sospensione porterebbero in breve tempo il paziente alla morte. Il Comitato nazionale di bioetica aveva di recente deciso che per «sostegno» si debbano intendere trattamenti che costituiscono «una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali» come l’emodialisi o la ventilazione artificiale, ma anche «piani di assistenza complessivi che siano rilevanti sull’individuo e sulla sua percezione personale». Pertanto non sono «sostitutivi» trattamenti farmacologici o assistenziali «la cui sospensione anche in tempi non rapidi» porterebbe alla morte del paziente.

Di diverso parere si è invece espressa la Corte (sentenza 135 del 2024). Il sostegno non riguarda solo ciò «che tiene in vita», ma qualsiasi trattamento che si riveli in concreto necessario «ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente». Una estensione quindi, motivata facendo riferimento alla legge sul consenso informato del 2019 che consente di rifiutare tali trattamenti, con la conseguenza però - prevista da quella legge - di accedere alla sedazione palliativa e non all’assistenza al suicidio. Il che fa una notevole differenza. C’è il rischio infatti che procedure come l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o caregivers, rientrino tra ciò che si può interrompere causando, prevedibilmente, la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

Il motivo addotto dalla Corte è che «non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali». Si invoca un criterio di uguaglianza di fronte alla legge, che però dimentica come il punto di partenza è sempre l’ammalato nella sua condizione fisica, psichica e relazionale, motivo per cui i medici sanno adeguare le cure a ciascuno, valutando bene cosa fare o non fare. Ma soprattutto c’è il pericolo di sospendere anche pratiche di assistenza sanitaria di tipo «ordinario» e quindi sempre dovute. La giustizia non è solo evitare una disparità di trattamento, in questo caso tra chi dipende da sostegni vitali e chi non vi è ancora sottoposto, ma garantire a ciascuno ciò che può recare beneficio in base alle sue condizioni.

Da ultimo i giudici dicono che «il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore»: questo però può portare a decidere in tribunale casi clinici molto delicati che sono invece competenza diretta dell’équipe medica e dei familiari. Il temine della vita di una persona non dovrebbe essere deciso da nessuno, casomai le persone a lui care possono esprimere un parere in accordo con i medici curanti. Possiamo rilevare come, con questa ulteriore sentenza, la quasi totalità dei casi difficili o eccezionali - che impropriamente vengono detti «pietosi» - trova una risposta all’autodeterminazione del paziente, per cui non si vede quale sia il vantaggio dall’introduzione dell’eutanasia diretta anche in Italia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA