Fine vita, nella legge più ombre che luci

Come valutare la legge «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita» appena approvata alla Camera e in attesa di passare all’esame del Senato? Più ombre che luci. Il tentativo dei radicali di introdurre l’eutanasia, cioè la libertà per qualunque malato di farsi dare la morte dal sistema sanitario non è stato accolto. Così come non si può parlare di «diritto di morire», apertamente escluso dall’ordinanza con la quale la Consulta ha appena dichiarato inammissibile il referendum sull’omicidio del consenziente. Però che il testo contenga possibili interpretazioni eutanasiche - a mio parere - non è del tutto escluso. La prima questione riguarda il «supporto e il sostegno del servizio sanitario» che deve essere prestato all’atto «autonomo» con cui il malato «pone fine alla propria vita in modo volontario» (Art. 2).

La questione è fin dove può arrivare questo «supporto»? Che il medico non sia un semplice spettatore è chiaro dalla necessità della sua prestazione altrimenti non si chiamerebbe morte «medicalmente assistita». Però anche di recente l’Associazione mondiale dei medici (WMA) ha ribadito che eutanasia e aiuto al suicidio non fanno parte dell’attività medica. Inoltre se la Consulta si era espressa in termini di libertà per i medici questa legge lo trasforma in un dovere di prestazione.

Ne è riprova l’introduzione dell’obiezione di coscienza per «il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie» (Art. 6) che implica che la regola è procurare la morte ove vi siano le note condizioni: «patologia irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente» (Art 3). L’altra novità è l’abolizione del doppio consulto per il malato. È stata modificata l’espressione che aveva raccolto l’accordo in Commissione «una patologia attestata dal medico curante e dal medico specialista» sostituendo la «e» con la «o»: una lettera che cambia tutto, sottraendo la decisione sulla morte assistita al giudizio del medico specialista della patologia di cui soffre il paziente.

Un aiuto qualificato su una decisione così importante non fa parte del consenso informato? Una terza questione riguarda le cure palliative. «Il rapporto deve indicare inoltre se la persona è a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative e specificare se è già in carico a tale rete di assistenza o se ha esplicitamente rifiutato tale percorso assistenziale» (Art. 5). Chiedere se una persona è «a conoscenza» è decisamente poco perché lo scopo delle cure palliative è avviare un percorso di presa in carico di tutta la persona che può ricevere trattamenti ancora efficaci per contrastare il dolore, cure per alleviare le sofferenze psicologiche e spirituali.

Ma soprattutto quella vicinanza e calore umano che non la lasciano sola a morire. Infine la condizione che il malato richiedente «abbia raggiunto la maggiore età» (Art. 3) dà la possibilità anche a ragazzi di 18 anni di accedere alla morte volontaria. Questo fatto dovrebbe far riflettere su come stiamo aiutando la nostra gioventù ad affrontare la vita, anche nella sua fase dolorosa. Il suicidio anche quello assistito non è mai affermazione di libertà, ma espressione di infelicità. Plauso socialmente deludente per l’indebolimento del bene e dell’amore per la vita nell’immaginario delle coscienze, specialmente dei più giovani dei più deboli. Chi ne è responsabile?

© RIPRODUZIONE RISERVATA