Fine vita, il metodo e il ruolo dei cattolici

ITALIA. Di nuovo siamo di fronte ad un pasticcio. E di nuovo la politica ha scelto una scorciatoia per affrontare la questione del fine vita. È l’ultimo capitolo di una società che chiude gli occhi e di una politica che si adagia su un dibattito grossolano attorno ad una materia complessa, creando un diritto al suicidio assistito su base regionale, una sorta di autonomia differenziata della morte su richiesta.

La legge approvata dal Consiglio regionale della Toscana non è un passo avanti, ma l’ennesimo tentativo polemico e pericoloso di depotenziare la cautela, lo studio e la meditazione su un tema da trattare con «delicatezza e senza strumentalità», come ieri ha sollecitato il presidente delle Acli Emiliano Manfredonia. Un’analisi seria sul fine vita manca e si finisce per sbattere sempre contro le sbarre di gabbie ideologiche e di urgenze legislative, evocate come unica soluzione di un’emergenza. Si insiste, si amplifica e si esagera, ma in realtà si riduce e si attenua. Il risultato è un dibattito culturale debole, che evita di affrontare con franchezza una deriva drammatica che si avvicina all’eutanasia e ad una creatività giurisprudenziale che riduce tutto ad una sorta di burocrazia sanitaria della (buona) morte.

La legge toscana è riuscita benissimo a ridurre la questione della vita e della morte ad una concessione amministrativa, con il rischio successivo, se fosse applicata la legge e non fosse impugnata dal governo di fronte alla Consulta, di alimentare un drammatico turismo della morte da altre Regioni

La Regione Toscana

In Toscana esultano per aver approvato per la prima volta in Italia una legge sul fine vita, fedeli scolaretti della Corte che sollecita da tempo una norma. Ma essa deve essere nazionale, approvata dal Parlamento essendo la materia indisponibile per legislazioni regionali, come indica tutta la giurisprudenza costituzionale ed europea. Eppure la Regione Toscana ha trovato il modo per aggirare l’invito dell’Alta Corte, riducendo la materia a tagliando automobilistico con precisissimi interventi circa i giorni da rispettare, i requisiti da valutare, i tempi per trasmettere provvedimenti agli organi competenti e accedere al percorso personalizzato per morire. Ogni sapienza, ogni visione sul valore delle persone, ogni risposta di fronte alla disperazione e alla solitudine che provoca il dolore viene polverizzato dalle linee guida di un iter pignolo e fiscale per ottenere la morte «più dignitosa possibile». Sul fine vita si procede per contrappunto, si marcia conflittualmente, ci si divide come se si dovesse difendere il diritto individuale dal paternalismo medico o garantire desideri in nome di una estrema terribile libertà. Ogni ragionamento sull’indispensabile coinvolgimento della dimensione comunitaria non trova spazio in questo procedere per coupon, che alla fine ha come unico risultato quello di levarsi di torno dal problema.

La legge toscana è riuscita benissimo a ridurre la questione della vita e della morte ad una concessione amministrativa, con il rischio successivo, se fosse applicata la legge e non fosse impugnata dal governo di fronte alla Consulta, di alimentare un drammatico turismo della morte da altre Regioni. Dispiace che in Italia manchi da tempo un’ alleanza culturale per sfilare il dibattito dalle contrapposizioni e dall’irruenza polemica spinta dal clima di emergenza. Una legge va fatta, ma come risultato di un’alleanza culturale che individui un orizzonte dove iscrivere il senso del vivere e del morire. Occorre una sapienza, anche audace, come quella che fu nella Costituente, che seppe con parole efficaci bloccare e superare conflitti laceranti. Allora il contribuito cruciale soprattutto sui diritti della persona venne dai cattolici. Oggi intervengono i Vescovi che non possono fare altrimenti e non perché la Chiesa sarebbe amante del dolore come qualcuno sciaguratamente sostiene e critica. Manca quel «metodo costituzionale», che nella Settimana sociale di Trieste è stato più volte sollecitato come visione e strumento per evitare molti passi falsi, che dovrebbe coinvolgere non solo pochi leader, ma l’intera società in maniera larga, intelligente e con scarsa enfasi.

Ma la fine vite non è una questione burocratica

Potrebbero proporlo quei cattolici che hanno promesso a Trieste di rimettere in piedi una rete efficace per un nuovo rigoroso e vigoroso impegno in politica? Sulla questione della vita, che va ben al di là del dovere presunto di assicurare il suicidio assistito, va stimolato un dibattito non conflittuale sulla dignità delle persone. Senza ansia da primi della classe da tutte le parti.

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