Fine del mondo?
Svolta epocale

Apocalisse climatica. Tempo scaduto. Condanna a morte globale. Sono solo alcune delle espressioni utilizzate da leader e attivisti mondiali, poi rimbalzate sui principali media nazionali, per descrivere la posta in gioco al summit Cop26 di Glasgow. Argomentazioni e toni così catastrofici, peraltro discutibili nel merito se presi alla lettera, secondo molti sarebbero comunque giustificati dalla necessità di trasmettere all’opinione pubblica l’urgenza della sfida che abbiamo di fronte. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli dei gravi rischi legati a una strategia simile.

In primo luogo, essa ingenera un senso di impotenza e una deresponsabilizzazione diffusa. Molti di noi saranno naturalmente portati a chiedersi: se la situazione è ormai a tal punto compromessa per colpa delle emissioni nocive di gas serra, che peso potrà avere la modifica di qualche mia abitudine in una direzione più virtuosa e sostenibile? Moltiplicate il dubbio per decine di milioni di individui, e immaginatene l’impatto. In secondo luogo, se la fine del mondo è ormai dietro l’angolo, ogni ipotesi di soluzione gradualistica perde valore nell’immaginario comune, diventa insignificante e immeritevole di sostegno. Risultato: un ulteriore senso di deresponsabilizzazione per qualcuno che quindi proseguirà come nulla fosse, oppure il rifugio nell’autoflagellazione moralistica per qualcun altro che prospetterà soluzioni punitive e controproducenti. In ogni caso, il dibattito pubblico su una questione così importante per il futuro del pianeta ne esce compromesso, dilaniato tra estremismi inconcludenti.

Un utile antidoto a tali rischi è contenuto in alcune parole pronunciate alla Cop26 dal presidente del Consiglio, Mario Draghi. Quest’ultimo ha sottolineato l’importanza cruciale dell’innovazione tecnologica nel contrasto del cambiamento climatico, ha osservato come le previsioni attuali siano elaborate in una situazione tecnologica data, mentre la storia contemporanea ci ha abituato (per fortuna) a un continuo progresso su questo fronte. Inoltre «nel lungo periodo dobbiamo essere consapevoli che le energie rinnovabili possono avere dei limiti. Dobbiamo iniziare a sviluppare alternative praticabili adesso», ha detto Draghi citando l’esempio delle «tecnologie innovative per la cattura del carbonio». Un approccio «sviluppista» del genere, oltre al vantaggio principale di essere efficace e fattivo, risulterebbe più accettabile agli occhi di quei Paesi emergenti che non si sognano di sacrificare alla leggera il benessere della loro popolazione in nome di obiettivi temporali a «emissioni zero» giudicati astratti o punitivi.

Non solo. Draghi ha spiegato che «a prescindere dal fatto che si tratti di nuove tecnologie o programmi infrastrutturali per l’adattamento ai cambiamenti climatici, il denaro può non essere più un vincolo se portiamo dalla nostra parte il settore privato. Parliamo di decine di trilioni di dollari». Lo ha confermato ieri su Repubblica il banchiere Domenico Siniscalco: «Oggi in Europa e negli Stati Uniti i bond che finanziano esclusivamente progetti ambientali, sociali o di governance sono cresciuti oltre il 25% e hanno raggiunto i 500 miliardi di dollari, mentre simmetricamente i capitali affluiscono con crescenti difficoltà ai progetti energivori che nessun investitore istituzionale sembra voler più finanziare. Senza contare che a fianco dei progetti volti a mitigare i cambiamenti climatici, i capitali Esg finanziano anche i progetti di adattamento ai cambiamenti climatici, tradizionalmente ignorati nei grandi negoziati». Innovazione tecnologica, alternative praticabili alle rinnovabili, finanziamenti privati: ecco tre elementi che fanno utilmente il loro ingresso nel discorso pubblico e istituzionale italiano sul cambiamento climatico. Teniamoli da conto. Adelante, con juicio.

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