L'Editoriale
Martedì 24 Agosto 2021
Femminicidi, cultura
difficile da sradicare
Ancora un femminicidio. Ancora una tragedia in cui la vittima aveva l’unica colpa di aver lasciato il proprio partner. Vanessa Zappalà aveva 26 anni, è stata uccisa a colpi di pistola la notte del 23 agosto mentre passeggiava in compagnia di amici sul lungomare di Acitrezza, vicino Catania, il lembo di Paradiso che fa da scenario ai Malavoglia di Giovanni Verga. «Tranquilla, non mi fa niente, è soltanto geloso», diceva a una sua amica preoccupata per le minacce che continuavano ad arrivarle, alle telefonate, ai messaggi, agli incontri non casuali in cui veniva intimidita. A sparare l’ex fidanzato della vittima con il quale aveva interrotto la relazione. Non le è stato perdonato. L’uomo è fuggito nelle campagne del Catanese, poi si è impiccato in un casolare.
Due famiglie devastate per una tragedia che ha come movente la concezione della donna come possesso, l’incapacità di vivere un rapporto come una storia d’amore da guadagnare ogni giorno col rischio che finisca e non una proprietà esclusiva.
Vanessa non era rimasta inerte di fronte a tutte quelle minacce. L’uomo infatti era stato già denunciato per stalking. E per quel reato la Procura di Catania aveva chiesto e ottenuto dal Gip che fosse posto agli arresti domiciliari. Era sottoposto al divieto di avvicinamento, ma tutto questo non è bastato. Se avesse avuto il braccialetto elettronico forse non sarebbe successo. Forse anche un’analisi più approfondita della sua pericolosità avrebbe salvato Vanessa. Ma sono «se» troppo labili e del senno di poi, come è noto, sono piene le fosse.
Vanessa aveva denunciato. La Procura aveva emesso dei provvedimenti. Ma nessun giudice può immaginare cosa alberga nella mente di un uomo, deve basarsi sulle circostanze, sui fatti, sui precedenti. E allora come difendersi, per una donna, se non basta denunciare? Nessuno ha una risposta in mano. Ma è chiaro che il femminicidio si estinguerà quando maturerà in tutto il Paese – soprattutto tra i giovani – la consapevolezza che un’unione amorosa, per quanto labile o forte che sia, esige rispetto, protezione, libertà, attenzione, dignità. L’Italia ha abrogato il delitto d’onore da tempo, ma l’ordinamento giuridico non basta per spegnere una mentalità, un retaggio culturale che è ancora duro a morire, come dimostrano le cronache da decenni. Grazie a numerose battaglie di associazioni, parlamentari e personalità dei vari ambiti della società civile (non solo donne) la legislazione italiana, soprattutto attraverso il cosiddetto «codice rosso» (che innova e modifica la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, corredandola di inasprimenti), è tra le più avanzate d’Europa, ma non è sufficiente. Serve un’educazione, una cultura, una consapevolezza più estesa e radicata: una moglie, una compagna, una fidanzata non è di proprietà del partner. Il rapporto d’amore è un mestiere quotidiano che esige attenzione e rispetto ed è sempre una scommessa, un rischio, da giocare fino in fondo. Molti uomini che si vedono arrivare la richiesta di separazione (ma a volte, anche se più raramente, anche donne) o che vengono lasciati non lo hanno ancora capito.
Dall’inizio dell’anno sono già 38 le donne morte di femminicidio. Basta leggere le ultime cronache: Victoria, Roberta, Teodora, Sonia sono le vittime di questa Spoon river moderna dell’universo femminile violato e oltraggiato con la morte. Alcune di loro persino raggiunte nelle località dove stavano trascorrendo le vacanze. Vanessa, la giovane donna che voleva semplicemente vivere il suo futuro con le sue amiche, in attesa del vero grande amore, nell’ultimo post social scriveva: «Non puoi mostrare il mare che hai dentro a chi non sa nuotare».
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