Fca, alt a Renault
Strategia buona

Nella rottura dell’accordo Fca-Renault colpisce la motivazione che è stata data da Fca, e cioè la mancanza delle «condizioni politiche». È un linguaggio quasi da trattativa di partito, non aziendale, puntando chiaramente il dito in direzione Eliseo. Sembra però troppo semplice lasciare il cerino a Macron, addebitandogli scarso europeismo sostanziale (che qui non c’entra), come pure fa un osservatore informato come Carlo Calenda. Dei francesi, fin dai tempi di Colbert, sappiamo tutto: centralismo, nazionalismo, priorità che danno ai loro interessi, senza sovranismi declamatori e autolesionistici come i nostri. Basta regolarsi. Né pensiamo che qualcuno si sia stupito della richiesta di un posto nel Cda, e neppure della collocazione in Francia della sede legale. Fca l’ha in Olanda, cosa fiscalmente discutibile ma non dirimente.

Quanto ai posti di lavoro da salvare, si tratta dell’armamentario rituale di qualunque accordo, anche se proprio in questi giorni si vede la fragilità di certe intese, dalla siderurgia alla Whirlpool. Dunque è difficile che un accordo destinato a cambiare la faccia dell’automotive mondiale, dipenda solo da impuntature politiche di uno Stato che avrebbe avuto il 7,5% del nuovo agglomerato. Certo la politica italiana è stata del tutto assente e non per nobili ragioni di rispetto dell’iniziativa privata. Il ministro dello Sviluppo e del Lavoro, capo politico eccetera non ha degnato di uno sguardo il loop a 360° da un accordo fatto ad un accordo fallito. Siamo tornati al punto zero, dopo un turbinio di miliardi virtuali, e siamo come quel burocrate che si compiace di non aver aperto la pratica, aspettando che si risolvesse da sola. Il problema però è che il tema esiste in tutta la sua imponenza e nel sistema automobilistico globale la posizione della componente strettamente italiana, cioè la F di Fca, è la più debole e a rischio, perché oltre a qualche eccellenza, non ci sono punti di forza oggi decisivi.

Sergio Marchionne l’aveva detto il primo giorno a Torino, e cioè che nel mondo le case automobilistiche presto si sarebbero contate sulle dita di una mano, e questo aveva fatto scandalo, ma il percorso successivo sarebbe stato inesorabilmente conseguente. Poi, i capolavori finanziari e le capacità negoziali del figlio del maresciallo dei carabinieri abruzzese non furono altrettanto brillanti nello sviluppo del prodotto e soprattutto nella tempistica per l’elettrico (e la guida assistita), nuovo core business del settore. Già nel 2020, scattano obblighi anti inquinamento che costringono a correre. Renault, e soprattutto i giapponesi di Nissan e Mitsubishi, porterebbero proprio questo valore aggiunto e il gruppo da far nascere sarebbe non soltanto il primo al mondo, ma il più integrato e completo (con qualche sovrapposizione tra Renault e Fiat nei segmenti piccoli e un grosso interrogativo a Mirafiori).

Forse è stata la fretta di prendere d’infilata la politica distratta dalle elezioni europee che ha tradito i negoziatori. E anche dividere in due stadi (prima 9 milioni di auto, poi salire a 15) il razzo che avrebbe volato più su di Volkswagen e di Toyota, ha spiazzato i giapponesi, che pure sapevano tutto, facendo parte dell’azionariato Renault. Se aggiungiamo poi il calcolo, tutto a vantaggio degli azionisti Fca, del concambio con Renault, rilanciato da analoga richiesta di dividendi miliardari per i francesi, ha probabilmente disassato la complicata costruzione. Sono queste forse le «condizioni politiche» non trovate? Ci resta solo da sperare che quella dell’altra notte sia stata tattica di negoziazione. La strategia è sempre buona.

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