Fare riforme richiede uno sguardo lungo

IL COMMENTO. Sono passati ormai quarant’anni da quando il tema delle riforme istituzionali è entrato nell’agenda politica, praticamente di tutti i partiti. Era già apparso chiaro allora che l’attuale sistema di governo accusava la sua età. Immaginarsi dopo un altro mezzo secolo.

Il nostro sistema di governo è stato concepito con la «sindrome del tiranno»: scongiurare una ricaduta della neonata democrazia nelle mani di un nuovo dittatore. Per questo, come ha autorevolmente riconosciuto Augusto Barbera, presidente della Corte costituzionale, di area progressista, è stato adottato un sistema «fatto apposta per non permettere ai vincitori delle elezioni di governare». Ragion per cui, ha concluso l’eminente costituzionalista, «è ora di superare un sistema ereditato dalla Guerra fredda».

Purtroppo, dopo quarant’anni di proposte la montagna ha partorito un topolino: la riforma del titolo V della Costituzione, che ha modificato solamente l’assetto del governo territoriale, sovvertendo i tradizionali rapporti tra Stato centrale ed enti periferici.

Nel frattempo gli orientamenti dei partiti in materia istituzionale sono cambiati, talora addirittura invertiti. Non nel metodo, però. Sono rimaste una visione di parte e una vista corta che commisura le proposte alla convenienza del momento. Proprio quello che non fa bene alla democrazia. Questa esige infatti una vista lunga. L’impianto istituzionale non può esser lasciato in balia degli umori del momento. Non ha suscitato nessun imbarazzo cambiare la legge elettorale, praticamente ad ogni cambio di maggioranza: prima il Porcellum, dopo il Rosatellum, modificato poi in Consultellun, l’Italicum per tornare da ultimo al Rosatellum. Parimenti si è passati, senza colpo ferire, dal proporre presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato, federalismo, regionalismo, secessione, autonomia differenziata.

Non entriamo nel merito dei meccanismi delle varie leggi di riforma per carità di patria. Chiediamoci invece qual è il succo di questo girovagare nel labirinto dell’ingegneria istituzionale. Dopo quarant’anni, siamo tornati alla casella di partenza.

Sono cambiati - si diceva - gli orientamenti, non è cambiato il metodo e non è cambiata anche l’improntitudine di presentare ogni riforma indifferentemente come miracolosa o fallimentare, a seconda che si stia al governo o all’opposizione. Posizioni sempre estreme che creano uno stallo e che nelle rare volte in cui si è riusciti ad approvare una riforma (Berlusconi, Renzi) hanno portato con un referendum ad abrogare la riforma.

Si è deciso ora di scrivere un nuovo capitolo del ponderoso e mai concluso libro delle riforme istituzionali. Il governo ha approvato l’autonomia differenziata ed è intenzionato a introdurre premierato e divisione delle carriere dei magistrati. Il canovaccio non è cambiato. Nobili intenti, norme (molte) imprecise o inadeguate. Non è stato indicato il quorum che il candidato premier deve superare per risultare eletto, col pericolo di avere un capo del governo eletto da una stretta minoranza. Non è stata precisata nemmeno la legge con cui procedere alla sua elezione. Quanto alle norme - chiamiamole - inadeguate, basti citare il meccanismo che vuole il premier eletto, privo del potere di scioglimento delle camere, potere che invece viene riconosciuto al suo eventuale successore, col risultato che il prescelto direttamente dagli elettori avrebbe meno poteri dell’eletto dal Parlamento.

Più che battaglie per vere riforme, si combatte per la propria bandiera. Lo fa il governo, lo fa l’opposizione. La sinistra non si è sentita imbarazzata dall’aver approvato il titolo V della Costituzione o di aver sostenuto in altri tempi il premierato. In barba al dovere, proprio di un’opposizione responsabile, di battersi per una propria riforma alternativa, si è barricata in difesa dello status quo, quando fino a ieri si era dichiarata favorevole a fare il doveroso tagliando ad un meccanismo istituzionale concepito per una democrazia in uscita da una dittatura ventennale, ora bisognoso di essere regolato per affrontare la sfida della globalizzazione. Insomma, siamo al paradosso. La sinistra si dice riformista e sorprendentemente fa proprio il motto dei conservatori: quieta non movere (non muovere le cose tranquille).

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