Europeismo di aria fritta. Draghi suona
la sveglia

MONDO. «I governanti democratici dell’Europa hanno adottato, rovesciandola, quella che fu la parola d’ordine di Gambetta per l’Alsazia e la Lorena: “Parlarne sempre e non pensarci mai” è la loro divisa».

Così, nel 1956, Ernesto Rossi scherniva politici e diplomatici che non facevano altro che disquisire di «rilancio europeo». Rossi, che quindici anni prima aveva scritto il Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, riteneva che il dibattito sul futuro dell’Europa fosse purtroppo affollato di «Personaggi Tanto Tanto Importanti», come li etichettò, impegnati a produrre solo «aria fritta». In uno dei momenti più difficili della storia contemporanea del nostro continente, è legittimo riconoscere almeno un po’ di quella sconsolata ironia nelle parole che Mario Draghi ha pronunciato l’altroieri al Parlamento europeo: «Mi hanno chiesto, al termine dell’Ecofin, quale sia l’ordine delle riforme necessarie per l’Ue – ha rivelato l’ex premier e presidente della Bce, secondo alcune ricostruzioni –. Quale sia l’ordine non lo so, ma per favore è il momento di fare qualcosa. Decidete voi cosa, ma per favore si faccia qualcosa, non si può passare tutto il tempo a dire “no”».

A questo proposito, in tre distinti interventi nell’arco di due settimane, Draghi ha offerto più di uno spunto di riflessione. L’altroieri, incontrando i presidenti di commissione del Parlamento Ue, ha detto per esempio che ci troviamo di fronte a «tre tendenze convergenti che ci obbligano a riflettere su come rafforzare la competitività europea nel lungo periodo». In primo luogo, «la digitalizzazione in rapida accelerazione e l’innovazione tecnologica di frontiera» che «continuano a stravolgere» organizzazione del lavoro e modelli di crescita. Poi il cambiamento climatico che «sta portando il nostro ecosistema naturale a un punto di svolta». Infine, «un contesto geopolitico in rapida evoluzione, caratterizzato da una maggiore tendenza al conflitto – sia in termini economici che militari – sta costringendo l’Ue a riesaminare il proprio approccio alla globalizzazione».

Sempre l’altroieri, come già sabato scorso incontrando i ministri dell’Economia dell’Ue a Gand, Draghi ha sostenuto che di fronte a cambiamenti così profondi nell’ordine economico globale all’Europa sarà richiesto di «investire una quantità enorme di denaro in un tempo relativamente breve». Solo per la transizione verde e digitale, secondo l’economista con laurea alla Sapienza di Roma e dottorato al Mit di Boston, servirebbero 500 miliardi di euro all’anno. A questi ultimi sarebbe necessario aggiungere gli investimenti per ridurre il gap crescente di produttività e crescita nei confronti di Paesi come gli Stati Uniti e inoltre, stando alle tesi illustrate sempre da Draghi lo scorso 15 febbraio a Washington, gli investimenti comuni nel settore della Difesa.

Una riflessione sulle nuove priorità europee, ha fatto capire Draghi ai suoi interlocutori, non può essere disgiunta da un’analisi dei costi e delle modalità per farvi fronte, pena trasformarsi in una nuova ma inutile lista della spesa. Per questo l’ex premier italiano ha ragionato con i ministri delle Finanze dell’Ue su come mobilitare il risparmio privato degli Europei, e non solo i soldi pubblici, su come concepire un eventuale fondo comune europeo per la competitività, o nuovi partenariati pubblico-privato con un ruolo per la Banca europea per gli investimenti. Senza un passo avanti in tal senso, Bruxelles insisterebbe nell’attuale tendenza a regolare e normare su quasi tutto lo scibile umano, dai sacchetti di plastica all’Intelligenza Artificiale, rinunciando però a priori a un ruolo attivo da (co)protagonista sullo scacchiere mondiale.

Innamorati dell’idea di essere una «potenza gentile» fra tanti colossi feroci, in alcuni casi affezionati a un rigorismo contabile che sconfina nel moralismo, gli europei rischiano di farsi immobilizzare da un tabù dietro l’altro. È come se Draghi, che in passato ha predicato «riforme strutturali» per la crescita quando in molti si limitavano a compiacersi del nostro benessere welfarista senza curarsi di sfide produttive e demografiche, lo stesso Draghi che ha pronunciato il «whatever it takes» per salvare l’euro dalla crisi finanziaria e da politiche monetarie obsolete, che ha popolarizzato il «debito buono» quando l’emergenza pandemica imponeva di superare l’austerity, stia oggi suggerendo di rottamare il prossimo tabù. Quello di un europeismo colmo di norme e proclami d’«aria fritta», troppe volte noncurante di come – sempre citando Draghi – sia «fondamentale costruire il consenso politico necessario per raggiungere un accordo su questioni cruciali».

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