Europee, resa dei conti in Spagna

MONDO. Spagna, un Paese sull’orlo di una crisi di nervi, tanto che le Europee di domenica prossima potrebbero trasformarsi in una resa dei conti sulla divisiva legge di Amnistia, sulla questione catalana e sulla sopravvivenza del governo a conduzione socialista.

Mai come oggi dalla fine del franchismo (1975) si era arrivati a livello nazionale ad uno scontro frontale di tali dimensioni. Qualcuno osa persino sostenere che la democrazia spagnola è adesso finita tra le mani della Magistratura, come successe in Italia con le inchieste di «Mani Pulite».

Proviamo a ricostruire, in breve, le ultime puntate della telenovela spagnola – roba da far sentire dei dilettanti i nostri politici della Prima Repubblica –, partendo dal disastroso risultato del Psoe alle regionali di un anno fa. Con una mossa a sorpresa e nonostante i sondaggi lo dessero perdente con un ritardo di ben 11 punti, il premier Pedro Sánchez scelse lo stesso di indire elezioni anticipate, il 23 luglio, per di più nel mezzo del semestre di Presidenza europea. Per la prima volta il Paese iberico votò così d’estate.

L’azzardo funzionò: i popolari – i principali avversari di Sánchez – vinsero sì le consultazioni con il maggior numero di preferenze, ma nel corso dei mesi si videro costretti a passar la mano, non riuscendo a costituire un esecutivo di coalizione.

Venendo meno a posizioni precedentemente assunte e ribadendo uno dei suoi credo di «fare di necessità virtù», il leader del Psoe poté formare in novembre un nuovo Governo grazie all’appoggio degli indipendentisti catalani. Il prezzo di tale accordo è stato l’approvazione da parte del Parlamento spagnolo – con un iter burrascoso – della legge di Amnistia, la quale cancella i reati, collegati al tentativo di indipendenza in Catalogna, commessi dal primo novembre 2011 al 13 novembre 2023.

La terza e decisiva votazione si è svolta il 30 maggio e Sánchez ce l’ha fatta per una manciata di voti nel mezzo di un dibattito dialettico violento sia alle Cortes sia tra l’opinione pubblica. Il leader socialista è accusato di essersi piegato al classico «patto col diavolo» (nella fattispecie il fuggiasco leader indipendentista Carles Puigdemont – l’uomo da cui dipende la sopravvivenza del suo terzo Governo), pur di rimanere alla Moncloa, mentre Sánchez risponde che anche in Catalogna è tempo di «riappacificazione». Il nocciolo del contendere è che sono stati amnistiati coloro che hanno organizzato nel 2017 il referendum illegale per l’indipendenza della Catalogna. Processo bloccato allora sia dalle forze dell’ordine spagnole sia dal Tribunale Supremo.

Senza entrare in complicate questioni legali o costituzionali, la legge amnistia circa 400 persone. Il problema è che non si capisce se Puigdemont vi rientrerà. Lo decideranno i giudici.

L’obiettivo prossimo dichiarato dagli indipendentisti è di indire un nuovo referendum – questa volta legale – insieme allo Stato spagnolo e verificare cosa voglia la popolazione della Catalogna. Opzione questa non ammessa dalla Costituzione del 1978, approvata allora dal 90% dei catalani.

Osservando che il fronte indipendentista si è negli anni di molto indebolito e alle regionali dello scorso marzo è stato sonoramente sconfitto dai locali socialisti, cosa farà Sánchez? Tenterà un nuovo azzardo? Seguirà le orme di David Cameron con la Brexit nel 2016, pur di rimanere alla Moncloa? Alla telenovela aggiungiamo altri due elementi: il primo di suspence; il secondo giallo-scandalistico a lieto fine.

Nessuno sa dove si trovi «la primula rossa» catalana. Forse ancora in «auto-esilio» in Belgio, mentre Bruxelles – leggasi Stato belga e Unione europea – fa finta di nulla davanti ad una «questione interna spagnola». Il maggior mal di testa è semmai cosa succederà non appena Puigdemont metterà piede a Barcellona, sperando in una entrata trionfale. Ma invero i «dolores de cabeza» saranno di Madrid.

In aprile un’inchiesta giornalistica ha attaccato doña Begoña, la consorte di Sánchez, accusata di «traffico di influenza». Il suo Pedro si è pubblicamente autosospeso per cinque giorni, minacciando le dimissioni. Alla fine tutto rientrato. Le opposizioni: «Pedro è troppo attaccato alla poltrona!».

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