Eurobond, il cammino è ancora lungo

La possibilità che la Ue emetta in modo continuativo Eurobond, cioè titoli di debito europeo garantito da tutti i Paesi membri, non è più un tabù ma il cammino da percorrere è ancora lungo. Dell’avvio di questo cammino il nostro Paese è stato l’artefice, in quanto la prima richiesta di emissione di titoli di debito «comuni» fu formulata dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti già nel 2003 e presentata nel programma ufficiale rassegnato dall’Italia per il suo semestre di presidenza europea. La prima proposta ufficiale risale tuttavia al dicembre 2010, all’apice della crisi dei debiti sovrani, quando sempre Giulio Tremonti - al tempo ministro italiano dell’Economia - e l’allora presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker, con un intervento sul «Financial Times» chiesero che la Ue lanciasse un messaggio forte ai mercati creando una «Agenzia europea del debito» per emettere bond sovrani europei.

La proposta fu ripresa nell’agosto del 2011 dal presidente della Commissione europea Romano Prodi e dall’economista Alberto Quadrio Curzio, che in un’intervista al «Sole 24 Ore» auspicarono la creazione di un Fondo finanziario europeo con capitali conferiti dagli Stati dell’Unione in grado di emettere «Euro Union Bond». Nessuna di queste proposte ebbe alcun seguito, soprattutto per la strenua opposizione della Germania, influenzata dal paladino dell’austerity Wolfgang Schaeuble e condizionata dalla posizione contraria assunta dalla Corte di Karlsruhe.

La situazione si è però evoluta in conseguenza della grave crisi economica e sociale causata dalla pandemia, che ha costretto tutti i Paese dell’Ue ad aumentare il ricorso al debito. In questo nuovo clima Italia e Francia si sono attivate per prime, riproponendo l’emissione di Eurobond e, con l’assenso di tutti i Paesi comunitari, si è giunti nel luglio del 2020 alla costituzione del fondo Next Generation Ue, prevedendo l’emissione di Eurobond per finanziare un debito comune europeo di 1.200 miliardi a favore dei 27 Stati aderenti. Dopo questa prima svolta storica legata a necessità contingenti, si è aperto un ampio dibattito circa la possibilità di passare con continuità alla creazione di Eurobond come specifico obiettivo della politica comunitaria. A dare un autorevole peso al dibattito è stato Mario Draghi, che il 24 marzo scorso in occasione dell’Eurosummit sul ruolo internazionale della moneta ha affermato: «Quello della emissione di Eurobond deve rappresentare un obiettivo di lungo periodo, ma sul quale è importante assumere un impegno politico», aggiungendo che «se c’è un insegnamento che la pandemia ha dato è che occorre un nuovo quadro di regole per l’Ue. Dobbiamo disegnare una cornice per la politica fiscale europea che sia in grado di portarci fuori dalla crisi». Il nostro premier ha anche sottolineato come «l’Europa dovrà accingersi a percorrere un cammino assai complesso e difficile ma indispensabile che dovrà portare ad un’unione dei mercati, ad un’unione bancaria completa, e ad una completa condivisione dei rischi (safe asset)». L’intervento di Draghi ha stupito molti osservatori economici i quali hanno evidentemente dimenticato l’ormai famoso «whatever it takes» pronunciato il 26 luglio 2016 nell’ambito della crisi del debito sovrano europeo. Dichiarando che avrebbe fatto tutto il necessario per salvare l’euro da eventuali processi speculativi, Mario Draghi dette inizio ad una politica monetaria della Bce fortemente espansiva, che è servita a restituire centralità alla moneta europea.

Allo stesso modo giunge oggi un chiaro richiamo alla necessità di completare sul piano politico, oltre che su quello monetario, il progetto europeo, facendo sì che il debito pubblico dei vari Stati membri confluisca in un debito comune. Perché ciò avvenga è necessario che il nostro Paese, notoriamente tra i più indebitati, si attivi per realizzare tutte le riforme indicate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza - Pubblica amministrazione, giustizia, fisco, concorrenza e semplificazione - che sono indispensabili per realizzare condizioni di bilancio più favorevoli. Chiedere agli altri Paesi europei di coprire i nostri ritardi e le nostre manchevolezze, sarebbe un ennesimo atto d’immaturità.

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