Etiopia, massacri
nascosti al mondo

L’oscuramento mediatico non è giustificabile con la crisi afghana. Il ritorno al potere dei talebani a Kabul è datato infatti 15 agosto scorso. Ma risale al 4 novembre 2020 l’abbrivio dei massacri nel Tigray, regione dell’Etiopia: migliaia di morti (non esiste nemmeno una contabilità precisa delle vittime), lo stupro anche di minorenni usato come arma su ampia scala, 2,7 milioni di fuggiaschi tra sfollati interni e rifugiati soprattutto nel confinante Sudan, scuole, chiese e ospedali bombardati. Il Patriarca della Chiesa ortodossa etiope, il tigrino Abune Mathias, ha accusato il governo di genocidio contro il suo popolo («Dio giudicherà tutto» ha detto).

Una mattanza non degna di notizia o di un cenno nei summit dei leader mondiali. A settembre 2020, il Fronte popolare di liberazione del Tigray aveva indetto elezioni regionali in autonomia rispetto al governo centrale - che non ne ha dunque riconosciuto l’esito - retto dal 2018 dal primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace dopo aver chiuso il ventennale conflitto con l’Eritrea. Nel novembre 2020, in risposta al voto, Addis Abeba inviò truppe nella regione dando il là al conflitto, con il supporto dell’esercito eritreo. Finora la comunità internazionale è rimasta a guardare senza prendere iniziative per una pacificazione o almeno per tamponare la crisi umanitaria. Ma un’azione diplomatica multilaterale dovrebbe essere nell’interesse di tutti e in primo luogo degli altri Paesi africani. L’Etiopia ha un’importanza strategica: è il secondo Stato più popoloso del continente, con 115 milioni di abitanti, ospita la sede dell’Unione africana ed è uno dei Paesi che negli ultimi anni ha avuto la crescita economica più stabile e robusta, attraendo ingenti investimenti esteri. L’implosione dell’Etiopia metterebbe in pericolo l’Africa orientale. Evitare che si trasformi in un «nuovo Ruanda» dovrebbe essere una priorità, come segnala un’analisi dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.

Ma ciò che sta accadendo è già da brividi. Il conflitto si è allargato alla regione di Oromia dove oltre 200 persone sono state assassinate negli ultimi giorni da uomini legati all’Esercito di liberazione oromo, da poco alleati militarmente con i ribelli del Fronte per la liberazione del popolo tigrino. Il conflitto tra gli oromo e il governo federale dura da quasi 50 anni. Una vera autonomia della regione sembra lontana nonostante il federalismo etnico sia alla base del sistema politico etiope e Abiy Ahmed faccia parte di questa comunità, dove oggi a causa degli scontri 400 mila persone sono alla fame. Ma è in Tigray, a maggioranza cristiano ortodossa, che continuano a consumarsi le peggiori efferatezze. Le comunicazioni con l’esterno sono interrotte e non ci sono associazioni umanitarie né giornalisti a documentare quello che succede. La soldataglia eritrea è accusata di atrocità come l’uso della violenza sessuale di gruppo. Non sono state risparmiate anziane, minori e suore cattoliche tigrine. Un documento dell’Ayder referral hospital di Macallé riferisce che tra novembre 2020 e maggio 2021 ci sono stati 503 casi di donne, tra cui 91 minorenni, curate dopo stupri di gruppo perpetrati perlopiù da federali e truppe eritree. Una vittima aveva 5 anni. Si calcola che tre donne su quattro abusate non vadano in ospedale perché lo stupro nella società tigrina equivale all’emarginazione. L’associazione «Aiuto alla Chiesa che soffre» riferisce poi di continui massacri di civili. Non mancano le rappresaglie dei ribelli fuori dalla regione: in interviste raccolte dall’Associated Press, decine di testimoni hanno raccontato che da due mesi colpiscono comunità e siti religiosi con l’artiglieria, uccidendo civili, depredando centri sanitari e scuole e costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire.

Secondo il Programma alimentare mondiale dell’Onu, il 91% della popolazione del Tigray (7 milioni di persone) ha necessità di cibo di emergenza. I governativi e gli eritrei hanno distrutto raccolti nel momento della mietitura e ostacolato o ritardato la distribuzione di aiuti.

Dopo il fallimento della Nato in Afghanistan si dibatte sulla nascita di un esercito europeo per riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti che non vogliono più essere il poliziotto del mondo. Ma non sono chiare le finalità: in quali contesti opererebbe e con quali scopi, avendo solo 6 mila effettivi previsti su 1,5 milioni di soldati dei 27 Paesi Ue? Andrebbe rilanciato anche il dibattito sul ruolo dell’Onu - presente nel Tikrit con un’operazione umanitaria - che tra i suoi strumenti ha le forze d’interposizione, spesso usate però con la missione di «peace keeping», di mantenimento di una pace che non c’è (è successo in Bosnia ad esempio) e non della più aggressiva «peace enforcing», di imposizione della pace. Intanto bisognerebbe eliminare il diritto di veto degli Stati nel Consiglio di sicurezza (Cina, Francia, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti) per far prevalere gli interessi generali su quelli nazionali. Andrebbe poi prevista una forza d’interposizione rapida (magari in collaborazione con altri organismi sovranazionali come Nato e Unione africana) per schierarsi sul campo prima che le schermaglie degradino in conflitti.

Però intorno alle Nazioni Unite aleggia scetticismo se non addirittura irrisione, effetto di fallimenti. Ma bisognerebbe tornare agli ideali (attuali) sui quali nacque dopo la Seconda guerra mondiale. E poi andrebbero rispettate le leggi nazionali che vietano la vendita di armi a Stati in guerra: l’Italia ad esempio non ha interrotto i rifornimenti all’Etiopia. L’alternativa è assistere inermi e indifferenti a mattanze e fiumane di profughi. A un’umanità selvaggiamente in balìa di furori criminali.

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