Essere giusti per dar voce agli ultimi e ai più deboli

LA RIFLESSIONE. La memoria dei martiri rappresenta sempre un cristianesimo esigente, una profezia nei confronti di ogni approssimazione e pigrizia. Nello stesso tempo, la festa patronale assume i lineamenti di un cristianesimo dialogico, disponibile a ricercare e individuare risposte condivise alle attese e alle speranze di ogni persona umana.

È il senso di questo decennio di ricorrenze patronali, contrassegnato dalla riflessione su condizioni virtuose per la vita personale e comunitaria: Misericordia, Gratitudine, Coraggio, Speranza, Umiltà, Fraternità, Compassione, Fiducia, Pace, Dialogo ed ora Giustizia, l’unica da annoverare tra quelle che la nostra cultura, la nostra civiltà e la nostra fede definiscono come «cardinali»: cardini della nostra stessa umanità.

«Sono quattro i cardini su cui gira la vita morale: frenare la cupidigia (temperanza), dominare la paura (fortezza), prendere decisioni sagge (prudenza) dar a ciascuno il suo (giustizia). Questi sono gli elementi di ogni vita onesta…» (Seneca nelle Lettere a Lucilio). Abbiamo appena udito, dal Libro dei Maccabei, la forte e drammatica denuncia dell’ingiustizia da parte di Mattatia: «In quel tempo si avvicinava per Mattatia l’ora della morte ed egli disse ai figli: Ora dominano superbia e ingiustizia, è il tempo della distruzione e dell’ira rabbiosa».

La nostra riflessione si propone di volgere lo sguardo, innalzandolo dall’oceano delle ingiustizie al cielo ove brilla la stella della virtù della giustizia. Non ci soffermeremo dunque sulle ingiustizie della storia e neppure sul valore e la necessità della giustizia, quanto sulla virtù della giustizia e ciò che essa comporta.

La prima considerazione ripropone l’esigenza dell’unità delle quattro virtù cardinali: senza questa unità, ciascuna della virtù ne esce indebolita. Dal libro della Sapienza: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza». Già gli antichi maestri insegnavano che sono necessari anche altri atteggiamenti virtuosi, come la benevolenza, il rispetto, la gratitudine, l’affabilità, l’onestà: virtù che concorrono alla buona convivenza delle persone. (Papa Francesco)

La virtù della giustizia non può essere separata dalle altre virtù cardinali. Quando avviene essa si riduce a riflessione astratta sulla correttezza delle procedure formali e dunque perde le caratteristiche della virtù. È il rischio di una legalità svuotata di fondamenti valoriali condivisi o riempita di connotati disumani. Nel 1937 i nazisti costruirono il campo di concentramento di Buchenwald, a 7 km da Weimar, in Germania. Il motto Jedem das Seine – “A ciascuno il suo” – fu posto sul cancello dell’ingresso principale del campo, tragica deformazione del significato essenziale della giustizia. Quanta ingiustizia nella storia e nel mondo, giustificata da una giustizia deformata da ideologie disumane o da interessi di parte!

Un secondo aspetto appartiene ai lineamenti di ogni virtù: il loro esercizio personale. Nello sport come nella vita si impone una legge universalmente riconosciuta: «Vinca il migliore». La vittoria appartiene a chi è migliore degli altri e prevede la loro sconfitta. L’esercizio della virtù, di ogni virtù, esige un altro criterio: la vittoria non è l’esito di una superiorità nei confronti degli altri, ma di un superamento nei confronti di se stesso.

Si legge nel libro dei Proverbi: «Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città». Nel libro sacro più venerato del buddhismo troviamo scritto: «La vittoria su se stessi è la massima vittoria, ha molto più valore che soggiogare gli altri. Questa vittoria nessuno la può contraffare né carpire». Gesù affermava il medesimo concetto con queste parole: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?».

Non basta migliorare le performance personali, aziendali e sociali: è necessario migliorare noi stessi alla luce dei valori cardine della vita umana, perseguendoli con la propria libera volontà: questa è virtù. Dare il meglio di sé significa esercitare la volontà in modo da perseguire non il proprio scontato interesse, ma ciò che è equo e buono per tutti, cioè la giustizia.

Se è evidente che la virtù esige una convinzione e una volontà personale, altrettanto evidente è la ricaduta sociale dell’esercizio delle virtù e in modo particolare della virtù della giustizia: essa diventa condizione decisiva per la costruzione di un mondo umano, una costruzione inevitabilmente faticosa e spesso anche dolorosa, realizzata in modo giusto, con mezzi giusti: un «mondo fatto dagli uomini per gli uomini, umanamente: cioè rispettando l’uomo, le leggi profonde e le profonde esigenze spirituali dell’umanità». Quanta insistenza da parte del Papa sulla strutturale ingiustizia di un modello di sviluppo che produce come inevitabili gli «scarti»: scarti ambientali, scarti sociali e infine scarti umani!

Non basta una visione diversa dello sviluppo: è necessaria una volontà personale e condivisa, volta a perseguire uno sviluppo più umano e più giusto. Questa volontà è frutto della nostra decisione e spesso è attuata da persone che non elaborano teorie, non immaginano di esercitare la virtù della giustizia, ma quotidianamente contribuiscono a «rifare il mondo» con l’umile perseveranza di una rettitudine che non si limita a ciò che è giusto, ma supera il doveroso.

L’ultima parte di questa essenziale condivisione, desidero dedicarla ad alcune caratteristiche della virtù della giustizia, a partire da quella della «passione». La giustizia affonda le radici nel dolore, il dolore causato dall’ingiustizia: la virtù della giustizia consiste nell’assumere questo dolore: il dolore che si prova di fronte alla violenza che si subisce, il dolore che si sente quando si viene privati di ciò che ci spetta, a cominciare dal riconoscimento di quello che siamo, dal riconoscimento che siamo, esistiamo, viviamo. Ma non solo noi, il dolore dell’ingiustizia subita da tutti e particolarmente dai più deboli. Se la giustizia esige l’imparzialità, la virtù della giustizia si alimenta alla rettitudine personale, all’esclusione degli inevitabili condizionamenti dell’interesse personale.

L’onestà non consiste solo nel rispetto della legge, ma è espressione della rettitudine del cuore: il «Discorso della montagna» nel Vangelo di Matteo, è la «magna charta» della rettitudine interiore. La rettitudine è richiesta a ciascuno, ma particolarmente a coloro che hanno autorità: «Perché coloro che servono una causa più grande possono far servire la causa a loro stessi, / pur facendo giustizia». (T. Eliot - Assassinio nella cattedrale)

La virtù della giustizia assume pure i tratti della resistenza mite e forte alimentata dalla forza della ragione e del diritto, contrastando la minaccia incombente della ragione della forza e del diritto del più forte. La virtù giustizia esige di dar voce a chi non ha voce: ai disabili, ai malati, agli anziani soli, ai carcerati, agli immigrati, ai bambini, ai perseguitati per la giustizia e la libertà. È più facile dar voce a chi ha subito o subisce ingiustizia, più difficile darla a chi ha commesso ingiustizia e ne sta scontando la pena: la «giusta» pena.

In queste settimane la condizione delle carceri, delle persone detenute e di coloro che vi lavorano si è riproposta con connotazioni drammatiche: non si tratta di sminuire la gravità dei delitti, ma di promuovere una risposta alla loro gravità con una visione che non mortifichi il valore sommo della dignità di ogni persona, anche di coloro che l’hanno deturpata: se il carcere, che non può essere l’unica risposta, prevede la restrizione della libertà, non può, come sta avvenendo, alimentare la restrizione della dignità di ogni persona: sia di coloro che vi sono detenuti, come di coloro che vi operano a tutti i livelli.

La giustizia, dice Machiavelli, «defende i poveri et gli impotenti, reprime i richi et i potenti, humilia i superbi et gli audaci, frena i rapaci et gli avari, gastiga gli insolenti, et i violenti disperge; questa genera negli stati quella equalità, che, ad volerli mantenere, è in uno stato desiderabile». Sorprendente l’evocazione del Magnificat, da parte dello scrittore fiorentino e la prospettiva dell’abbassamento di chi sta in alto e del corrispondente innalzamento di chi sta in basso: non è possibile innalzare gli umili e difendere i poveri senza al contempo contenere i ricchi e i superbi.

La disuguaglianza crescente e diffusa contraddice alla giustizia e alla virtù: è necessario un perseverante, coraggioso esercizio nel ricostruire quotidianamente il tessuto di un sostanziale riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni persona umana, a cominciare dai più deboli. Se l’ingiustizia assume la vastità dell’oceano, alziamo lo sguardo alla stella della virtù della giustizia che insieme alle altre virtù cardinali, alla fede, alla speranza e alla carità, costituiscono il firmamento di un’umanità che nella prova, nell’incertezza, nel dolore, non rinuncia a percorre le rotte illuminate da queste stelle.

© RIPRODUZIONE RISERVATA