L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 20 Settembre 2020
Esportare democrazia
Un bilancio mortale
In Iraq solo ad agosto sono state uccise 81 persone. Un numero enorme, che non ha trovato spazio nei grandi media, gli stessi che nel 2003 trasmisero in diretta all’ora di cena i bombardamenti su Bagdad, come se fossero video games, e nel 2006 l’impiccagione di Saddam Hussein, con la botola che si apriva e l’ultimo rantolo del dittatore. Una paurosa regressione del grado di civiltà dell’informazione occidentale. In 17 anni di guerra sono stati uccisi 600 mila iracheni, il 60% in scontri armati e il 40% per cause indirette dovute al collasso delle infrastrutture mediche e sociali. Il conflitto è costato ai contribuenti americani 1.700 miliardi di dollari, altri 490 per l’assistenza ai reduci.
Nel Paese mesopotamico 4.500 soldati Usa hanno perso la vita e più di 600 mila sono ora disabili, in seguito a ferite incurabili. Nel 2003 la Casa Bianca, retta da George W. Bush, e il suo principale alleato, il governo britannico di Tony Blair (negli anni a venire pentitosi della decisione) condussero una campagna martellante, motivando la necessità dell’attacco al regime di Saddam con la presenza nel territorio che governava di armi di distruzione di massa (mai trovate) e la volontà di esportare la democrazia. A dittatura abbattuta in effetti gli iracheni furono liberi di scegliere da chi farsi condurre: le elezioni mandarono al potere partiti sciiti (è la maggioranza del Paese, repressa da Saddam) ma involontariamente dando il la a un progrom settario che dura tuttora. Anziché creare una democrazia liberale, il conflitto ha incoraggiato vendette e violenze, mettendo gli arabi contro i curdi e gli sciiti contro i sunniti. I cristiani sono fuggiti in seguito alla pulizia etnica degli jihadisti sunniti: nacquero infatti cellule di Al Qaeda locali e nel 2014 lo Stato islamico, a cavallo con la Siria.
Giovanni Paolo II si oppose con tutte le sue forze all’attacco, così come un ampio movimento pacifista di cui non c’è più traccia. L’arcivescovo latino di Bagdad Jean Sleiman rilasciò al nostro giornale, nel febbraio 2013, un giudizio che oggi suona profetico: «Chiunque venisse dopo Saddam Hussein, qui avrà problemi enormi. In Iraq, in seguito alla sua composizione etnica e religiosa, ad ogni momento di cambiamento sono seguiti progrom». Un’altra conseguenza di quella sciagurata e irresponsabile avventura militare è l’influenza che oggi l’Iran (a maggioranza sciita) ha sul vicino mesopotamico, decidendone le sorti politiche ed economiche.
Ora gli americani si accingono a ridurre considerevolmente la loro presenza in Iraq (forse lo considerano perso) e ad abbandonare anche l’Aghanistan, teatro della prima reazione Usa, nel 2001, all’attacco terroristico dell’11 settembre. Kabul, allora retta dai Talebani, fu accusata di nascondere Osama Bin Laden, leader di Al Qaeda e mente dell’abbattimento delle Torri Gemelle, poi ucciso in Pakistan. Nel 2019, per il sesto anno consecutivo, la guerra ha causato più di 10 mila vittime. Ma da mesi sono in corso trattative tra la Casa Bianca e i Talebani per un accordo che prevede il ritiro delle truppe a stelle e strisce in cambio delle garanzie di sicurezza da parte degli ex nemici e della promessa di tenere colloqui di pace col governo di Kabul. Ma tra gli obiettivi talebani c’è l’istituzione di un Emirato islamico, adottando la Sharia a danno dei diritti delle donne e delle minoranze per cui abbiamo lavorato (l’Italia ha contingenti sia in Iraq che in Afghanistan) in questi anni.
Intanto chi scappa da questi inferni si sottopone a viaggi tremendi, fino a camminare per centinaia di chilometri lungo la rotta balcanica ed essere poi respinto dai Paesi europei che non riconoscono loro il diritto d’asilo: con che faccia...Dovevamo combattere il terrore e l’abbiamo importato in Europa, dovevamo esportare la democrazia e abbiamo lasciato il caos. Un capolavoro.
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