Erdogan vince ancora in un Paese diviso in due

ESTERI. Recep Tayyip Erdogan ha di nuovo vinto e sarà presidente della Turchia per altri cinque anni. Il Paese anatolico è oggi diviso in due, polarizzato, come solo certe figure sono in grado di fare.

Sorgono due domande al momento: il XXI sarà realmente il «secolo della Turchia», della riscossa, come il riconfermato capo dello Stato ha promesso? E quali saranno le ripercussioni geopolitiche di questo voto? I quotidiani internazionali sono pieni di articoli sull’affermazione della «democrazia illiberale», sulla vittoria del nazionalismo e dell’autoritarismo rispetto al desiderio di un ritorno ad una democrazia laica di stampo più occidentale o più «kemaliana», sul successo delle province sulle città e delle masse poco istruite sulla classe media.

Come denunciato dalle opposizioni, Erdogan ha utilizzato i cosiddetti «mezzi amministrativi» per facilitare i suoi intenti. Ha poi da anni il controllo dei mass media e della magistratura (quest’ultima gli ha permesso di neutralizzare alcuni avversari). È inutile aggiungere che si sa bene come vanno le cose a certe latitudini, non appena si esce da ben definiti confini geografici.

Colpisce semmai che Erdogan sia riuscito a vincere nonostante il suo Paese sia alle prese con una grave crisi economica. Tra tasso annuo di inflazione alle stelle e il corso della lira turca inabissato c’è poco da stare allegri.

La vita quotidiana dei singoli cittadini è pesantemente influenzata da questa débacle finanziario-economica, il cui responsabile è uno solo. Inoltre, lo spaventoso terremoto di febbraio, che ha semidistrutto una decina di province meridionali, ha portato alla luce un sistema burocratico corrotto su cui il potere ha chiuso per anni tutti e due gli occhi. E anche qui è evidente chi avrebbe dovuto vigilare.

Erdogan ha avuto la meglio perché ha saputo vendere bene il concetto di «stabilità» (chissà quali sconquassi sarebbero arrivati!) e di «sogno turco» in presenza di un’onda internazionale che premia nazionalismo e populismo in antitesi alla turbo-globalizzazione che sta tramontando. Un’onda, attenzione, che è arrivata fino alla Scandinavia.

Ma come è possibile – è una delle questioni chiave - che la maggioranza degli immigrati turchi in Germania abbia votato per il «sultano»? Perlomeno loro dovrebbero essere testimoni di come si vive in Occidente. E invece no: in loro ha prevalso, asseriscono gli esperti, la sensazione di essere in Europa «cittadini di serie B» e ci si gonfia il petto grazie alla politica estera di Ankara: «Siamo tornati a contare nel mondo!».

Erdogan mediatore tra Russia e Ucraina; Erdogan peso massimo in Libia; Erdogan vincente in Caucaso sostenendo l’Azerbaigian; Erdogan punto di riferimento all’interno del mondo islamico. Ma l’Asia turcofona ex sovietica, osservata speciale di Russia e di Cina, per ora appare lontana dal Bosforo.

Ecco cosa è la promessa «neo-ottomana» di riscossa nel XXI secolo, una promessa che si poggia sì sulla potenza delle sue Forze Armate – considerate come le seconde più agguerrite tra quelle dei Paesi della Nato -, ma che ha le basi economiche-finanziarie appena descritte.

Non si sottovalutino, però, i progressi tecnico-industriali raggiunti: si pensi, ad esempio, ai droni turchi, che stanno facendo la differenza sui campi di battaglia.

Erdogan, in sintesi, rimarrà uno dei giocatori principali sulla scena internazionale. Il primo nodo da sciogliere sarà adesso quello dell’adesione della Svezia alla Nato, bloccata da Ankara per il «sostegno di Stoccolma a gruppi terroristici» (curdi).

Per l’Unione europea la questione dei rifugiati siriani in Turchia e per l’Italia gli equilibri nel Mediterraneo orientale, dove sono stati trovati rilevanti riserve di idrocarburi, saranno problemi non semplici da risolvere in presenza di un Erdogan indebolito in casa propria dalla crisi economica e da un’opposizione più forte rispetto al passato.

Quali lezioni trarre dal voto turco? L’indipendenza di mass media e magistratura sono garanzia di democrazia; un discusso referendum costituzionale nel 2017 ha spianato la strada a questa situazione. Non è vero che i Paesi gestiti da autocrati siano più efficienti delle democrazie del G7. Anzi.

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