L'Editoriale
Venerdì 16 Giugno 2023
Embrioni, se la ricerca gioca a fare Dio
ATTUALITÀ. «Creati embrioni umani sintetici per lo studio delle malattie genetiche» questa la notizia che rimbalza su tutti i giornali e telegiornali. La biologa Magdalena Ernicka-Goetz ha realizzato un modello di embrione il più possibile simile all’embrione umano nelle prime fasi dello sviluppo.
Questi embrioni «simili» a quelli umani non hanno un cuore né un cervello e non sarebbero destinati a essere fatti evolvere durante una gravidanza per far nascere un possibile «bambino sintetico». Tuttavia il materiale genetico è stato prelevato da cellule staminali embrionali. Quindi si è utilizzato il patrimonio genetico di un embrione umano a tutti gli effetti per realizzare qualcosa di nuovo e sconosciuto. Questo però, è bene ricordarlo, ha comportato la distruzione, parziale o totale, di quell’embrione umano. Tali sperimentazioni su embrioni sono ammesse solo in Gran Bretagna dove è anche possibile produrre e conservare embrioni a esclusivo scopo di ricerca scientifica. Non come negli altri Paesi dove gli embrioni prodotti vengono impiantati in utero mediante le tecniche di procreazione medicalmente assistita. La domanda è se in nome della ricerca, motivata da una pur nobile causa come quella di trovare altre cure alle malattie genetiche, debba comportare il sacrificio di embrioni umani e il rischio di produrre esseri umani artificiali, che non sono integralmente umani. E se non è umano a cosa siamo di fronte?
Sappiamo che lo scopo della ricerca è conoscere sempre meglio i meccanismi della vita umana. L’interesse per l’embrione umano dal punto del suo impiego terapeutico risale al 1998 con la creazione di cellule staminali a partire da embrioni umani precoci. Da quel momento si moltiplicarono le ipotesi sull’impiego di questo tipo di cellule per la cura di una gran quantità di malattie, vista la facilità di divisione e la plasticità delle cellule staminali embrionali di diventare qualsiasi altro tipo di cellule dell’organismo umano. Col tempo però si è visto che queste caratteristiche delle cellule, prelevate da embrione, non giovano a favore di un uso clinico, perché possono dar origine a tumori. Per questo la ricerca, dalle cellule staminali embrionali (Esc dall’inglese embryo stem cell) si è spostata sulle cellule staminali pluripotenti indotte (ipsc, induced pluripotent stem cell), ottenute attraverso l’introduzione di alcuni fattori di trascrizione genetica che fanno differenziare una cellula adulta.
Il primo a ottenere cellule staminali simili a quelle embrionali senza dover distruggere embrioni umani è stato nel 2012 il ricercatore giapponese Shin’ya Yamanaka, nel 2006 premio Nobel. Questo modo di procedere, come si può facilmente capire, è rispettoso della dignità dell’embrione umano. Pertanto esiste già un percorso eticamente accettabile per continuare una ricerca sulle staminali che possa avere sviluppi terapeutici importanti. Ovviamente bisogna investire in questa direzione.
Ma oltre al rispetto della vita umana nelle sue primissime fasi di esistenza, cosa che non è avvenuta nella ricerca della biologa inglese, anche se l’intera ricerca non è stata ancora pubblicata, c’è un’altra questione rilevante che riguarda il «prodotto» di questi esperimenti. Perché creare nuove forme di vita totalmente ignote, imprevedibili e anche potenzialmente pericolose? È vero che la scienza procede per tentativi, ma è pur sempre guidata dalla ragione. E la ragione suggerisce di essere prudenti quando c’è di mezzo la vita umana o del materiale biologico umano. Il rischio è di trovarsi di fronte a un essere simile all’uomo di cui non sappiamo quasi niente.
La curiosità è l’anima della scienza, ma la saggezza è ciò che ci rende persone responsabili di noi stessi e degli altri. La ricerca scientifica dovrebbe sempre essere orientata alla cura delle malattie, tale scopo però è perseguibile solo con strumenti e sperimentazioni rispettose dell’uomo nella sua dignità e totalità. Diversamente non si cerca il bene dell’umanità, ma la propria gloria personale o si gioca a fare Dio.
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