Elezioni europee, lo sguardo strabico

MONDO. Era scontato che le elezioni europee, perché regolate dal sistema proporzionale, avrebbero creato le condizioni di una lotta di tutti contro tutti. Fuori e anche dentro le coalizioni. La ragione è presto detta.

Ogni partito è spinto ad ottenere il miglior risultato possibile. Nel caso specifico del presente voto europeo non c’è, per di più, solo il sistema proporzionale a esasperare la conflittualità interpartitica. Ci sono altri due fattori. Uno specificamente nostrano, un secondo condiviso con tutte le altre nazioni della Ue. È notoriamente consolidata la nostra propensione a conferire un significato di politica interna ad ogni questione di politica estera. Non c’è quindi da meravigliarsi se si scrive voto europeo ma si legge voto italiano. C’è poi un altro dato, legato invece alla geografia elettorale europea, che distoglie i partiti dal considerare il merito del voto europeo: la frammentazione partitica del Parlamento eletto. Questa obbliga i partiti ad una negoziazione tra diversi - può essere anche tra nemici - per la formazione di una maggioranza. Con una complicazione ulteriore, che tutti i governi sono fortemente interessati a partecipare alle trattative per la nomina della Commissione. Chi resta fuori è destinato, infatti, ad essere penalizzato nella spartizione delle ricche risorse finanziarie dell’Ue.

La spinta ad esser della partita è talmente forte che persino i partiti antisistema sono disposti a transare. Lo hanno fatto i 5 Stelle nella legislatura che si sta chiudendo. Gli allora strenui banditori del «Vaffa-Vaffa» contro tutto e tutti - si acconciarono a chinare il capo e votarono Ursula von der Leyen, la candidata dei popolari sostenuta dai socialisti, quindi icona del sistema che essi dicevano di voler abbattere. Altrettanto mostra di essere disposta a fare oggi il Rassemblement National di Marine Le Pen, pensando al Parlamento che si elegge.

C’è, in poche parole, un dato vincolante per chi si presenta alle elezioni europee. Sa che, se non vuole essere escluso dalla futura coalizione di governo, deve mettersi nelle condizioni di partecipare al gioco delle trattative. Il bello è che - lo si sa ma non lo si dice - a dare le carte saranno sempre loro, i due partiti maggiori - i popolari e i socialisti - e per di più che sarà (presso che) impossibile costruire una maggioranza senza uno dei due. «No Ppe e Pse, no party». Si capisce quindi perché tutti i partiti siano restii a prendere impegni vincolanti. Non è affatto vero che le «jeaux sont faits». Per questo s’è scatenata una serrata competizione. Il risultato s’è visto. Gli schieramenti si sono sfaldati. Divisioni si sono create pure all’interno dei partiti. Le Pen e Salvini hanno scaricato la nazista Alternative für Deutschland. Meloni sta cercando di non farsi vincolare dalla sua carica di presidente dei Conservatori per tenersi le mani libere sulle future alleanze da stringere per il governo dell’Ue, nella speranza di far da pontiere tra destra e centro. Tajani si è aggrappato al Ppe per avere la sponda con cui avvantaggiarsi anche col suo alleato Salvini. Il Ppe ha preso le distanze dalla sua candidata von der Leyen per non ritrovarsi immettersi al ssicuro al momento della negoziazione delle alleanze.

Più o meno, lo stesso stanno facendo le altre forze politiche. Pochi impegni e quei pochi generici. Poche idee e quelle poche usate per infiammare le polemiche. Parola d’ordine: alla larga del merito delle questioni, pur così cruciali per il futuro del Vecchio continente, che il Parlamento europeo dovrà affrontare nella prossima legislatura. Ciò non aiuta certo a convincere gli elettori, già da tempo demotivati a recarsi alle urne, a compiere il loro diritto/dovere di rendere più partecipata la democrazia. Con buona pace della lamentata, continua crescita dell’astensionismo.

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