Economia frena
Politica arranca

Se qualcuno aspettava una conferma, è arrivata: l’economia italiana sta frenando. Lo dice il Fondo monetario che ha tagliato le stime di crescita del Pil 2019 dall’1 per cento dello scorso ottobre allo 0,6. Proprio come ha fatto la Banca d’Italia qualche giorno fa. Non solo: secondo l’istituto presieduto da Christine Lagarde il caso italiano, insieme alla Brexit e al rallentamento cinese, è uno dei principali responsabili del rallentamento dell’economia mondiale. Le risposte acide che arrivarono dal governo all’indirizzo di via Nazionale (« da un po’ di tempo che non ci prendono», Di Maio dixit) si ripetono oggi verso l’istituto di Washington («È il Fmi un pericolo, non l’Italia», Matteo Salvini). Ma sono commenti che non possono nascondere un elemento di verità che anche il ministro del Tesoro Tria, sia pure con qualche paravento lessicale, ha dovuto ammettere: siamo in stagnazione («in recessione tecnica») come ci confermerà l’Istat alla fine del mese, e abbiamo davanti un anno di magra.

Naturalmente siamo dentro una dinamica mondiale ed europea (anche se il Fmi in parte ce l’addebita) che per noi molto dipende dalla frenata della Germania, però si ripete ciò che purtroppo constatiamo sin dalla fine degli anni ’90: quando le cose vanno male dappertutto, da noi vanno un po’ peggio; quando le cose vanno bene dappertutto, da noi vanno meno bene che altrove. Un’amara versione italiana dello sviluppo che ci penalizza dall’inizio del secolo e che ha tante cause, a cominciare dal livello di produttività, e tante conseguenze. Ma per venire all’oggi, il taglio delle stime di crescita – insieme all’avvertimento che il vento contrario deriva dal rischio sovrano e da quello finanziario, e dal collegamento tra loro – ha una immediata conseguenza sulle previsioni di deficit faticosamente concordate con Bruxelles a livello di 2,04 per cento. Un livello minimo per finanziare la manovra gialloverde tutta centrata sulle spese dovute alla «Quota 100» pensionistica e al reddito di cittadinanza.

Avendo ridotto il deficit su ordine dell’Europa, la spesa per quelle due misure bandiera è stata già ridimensionata rispetto alle intenzioni iniziali, ma potrebbe esserlo ancor di più ora che sappiamo che cresceremo la metà di quanto stimato dal governo dopo il tira e molla con Bruxelles e addirittura un terzo di quello pomposamente annunciato ai tempi del balcone di palazzo Chigi e dell’«abolizione della povertà». Ridurre la spesa per quei provvedimenti ha un impatto immediato sul piano politico soprattutto se a questo dovremo aggiungere (come molti prevedono) una manovra aggiuntiva di almeno 4-5 miliardi, soldi che da qualche parte bisognerà pur spremere. È chiaro che pensioni e RdC sono i due messaggi che leghisti e grillini inviano al loro elettorato - la promessa mantenuta, almeno in parte. Il problema è che questa parte si riduce ad ogni passo. Anche per ragioni burocratiche, s’intende. Basti pensare al reddito di cittadinanza la cui gestione peserà sugli attuali ottomila dipendenti (largamente insufficienti) delle agenzie per l’impiego che potranno giovarsi dell’aiuto degli altri quattromila assunti dalle Regioni solo in agosto e dei seimila «navigator» (ingaggiati come precari Co.co.co) addirittura in autunno. Come potrà il beneficio essere avvertito già in primavera, come spera Di Maio, cioè alla vigilia delle elezioni europee della fine di maggio? Difficile che avvenga. Servirebbe un piano di investimenti pubblici più corposo di quello previsto dalla legge di Bilancio, e dunque lo sblocco dei cantieri delle opere pubbliche. Proprio quelli su cui i partner di governo hanno idee diverse e che produce una forte tensione politica dentro la maggioranza: con una crescita così modesta come si potrà ancora bloccare la Tav e tutto il resto?

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