È la disumanità che circonda la morte
il vero tema da affrontare

Bisognerebbe tornare a dare più valore alle parole non solo sul piano sintattico, ma anche su quello semantico. Eutanasia e suicidio non definiscono solo una nozione e quindi un’azione, ma indicano nel loro significato simbolico un orizzonte di relazioni che ne determinano l’interpretazione profonda.

Il significato delle due parole non sta dunque nell’esito dell’azione, ma nelle sue motivazioni. Nel caso del malato quasi sempre la domanda di eutanasia o di suicidio assistito è dettata dall’abbandono sociale e terapeutico. È difficile morire da soli. Se invece attorno al malato si organizzasse una rete di affetti e nella società si cominciasse a ragionare del diritto non solo ad essere curati, ma anche accompagnati, le perversioni insidiose dei significati verrebbero disperse.

Ma cambiare il piano della discussione non è facile. Così il suicidio assistito diventa certificazione di modernità, soluzione burocratica per rendere meno sconvolgente una sconfitta per tutti. Il suicidio, qualunque suicidio in qualunque forma, è una sconfitta per l’intera società, che non sa offrire più motivazioni per vivere. Quando uno si uccide il dolore dovrebbe essere collettivo. Il professor Francesco D’Agostino, uno dei componenti del Comitato di Bioetica ad aver votato contro il parere riguardo al suicidio assistito, nelle motivazioni della sua decisione, pubblicate come «postilla», cita Albert Camus, lo scrittore francese premio Nobel che indagò con le parole la coscienza umana, il quale riteneva che esistesse un solo problema filosofico veramente serio, quello appunto del suicidio. Ma sui suicidi non si discute quasi mai, fanno scalpore quelli vip, finiscono nell’oblio tutti gli altri.

Eppure per molti Paesi avanzati sono una delle prime cause di morte. Ci si divide tuttavia sull’assistenza al suicidio, argomento politicamente più corretto. La discussione, per il vero, è da osteria, come molte oggi in Italia. Il Parlamento sollecitato dalla Corte un anno fa ad occuparsene non lo ha fatto e i tempi per approvare una legge entro il 24 settembre, dead line stabilita dai giudici costituzionali, non ci sono. Forse è meglio così. Sull’argomento i due contraenti di governo la pensano in modo diametralmente opposto ed è meglio risparmiare al Paese l’apertura di un altro fronte. Eppure la questione rimane e non può essere risolta con uno sbuffo liberatorio, un’alzata di spalle o le solite battute via social. L’argomento che va affrontato è la disumanità che circonda ormai la morte, diventata una sorta di tabù o di fastidio, quasi che i progressi della medicina e delle scienze impongano una sorta di inibizione comunicativa sulla morte, destinata a diventare in futuro un fatto innaturale. Ma per tornare alle «grandi discussioni» bisogna mettere in fila la complessità dell’orizzonte e delle sue prospettive, trovare i nessi, gli intrecci e non semplificare e isolare, tagliare e giustificare, operazioni solo di nevrosi collettiva, per mettere la coscienza a posto, facendola tacere. L’argomento è cruciale? Occultiamolo.

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