L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 31 Luglio 2019
È la disumanità che circonda la morte
il vero tema da affrontare
Bisognerebbe tornare a dare più valore alle parole non solo sul piano sintattico, ma anche su quello semantico. Eutanasia e suicidio non definiscono solo una nozione e quindi un’azione, ma indicano nel loro significato simbolico un orizzonte di relazioni che ne determinano l’interpretazione profonda.
Il significato delle due parole non sta dunque nell’esito dell’azione, ma nelle sue motivazioni. Nel caso del malato quasi sempre la domanda di eutanasia o di suicidio assistito è dettata dall’abbandono sociale e terapeutico. È difficile morire da soli. Se invece attorno al malato si organizzasse una rete di affetti e nella società si cominciasse a ragionare del diritto non solo ad essere curati, ma anche accompagnati, le perversioni insidiose dei significati verrebbero disperse.
Ma cambiare il piano della discussione non è facile. Così il suicidio assistito diventa certificazione di modernità, soluzione burocratica per rendere meno sconvolgente una sconfitta per tutti. Il suicidio, qualunque suicidio in qualunque forma, è una sconfitta per l’intera società, che non sa offrire più motivazioni per vivere. Quando uno si uccide il dolore dovrebbe essere collettivo. Il professor Francesco D’Agostino, uno dei componenti del Comitato di Bioetica ad aver votato contro il parere riguardo al suicidio assistito, nelle motivazioni della sua decisione, pubblicate come «postilla», cita Albert Camus, lo scrittore francese premio Nobel che indagò con le parole la coscienza umana, il quale riteneva che esistesse un solo problema filosofico veramente serio, quello appunto del suicidio. Ma sui suicidi non si discute quasi mai, fanno scalpore quelli vip, finiscono nell’oblio tutti gli altri.
Eppure per molti Paesi avanzati sono una delle prime cause di morte. Ci si divide tuttavia sull’assistenza al suicidio, argomento politicamente più corretto. La discussione, per il vero, è da osteria, come molte oggi in Italia. Il Parlamento sollecitato dalla Corte un anno fa ad occuparsene non lo ha fatto e i tempi per approvare una legge entro il 24 settembre, dead line stabilita dai giudici costituzionali, non ci sono. Forse è meglio così. Sull’argomento i due contraenti di governo la pensano in modo diametralmente opposto ed è meglio risparmiare al Paese l’apertura di un altro fronte. Eppure la questione rimane e non può essere risolta con uno sbuffo liberatorio, un’alzata di spalle o le solite battute via social. L’argomento che va affrontato è la disumanità che circonda ormai la morte, diventata una sorta di tabù o di fastidio, quasi che i progressi della medicina e delle scienze impongano una sorta di inibizione comunicativa sulla morte, destinata a diventare in futuro un fatto innaturale. Ma per tornare alle «grandi discussioni» bisogna mettere in fila la complessità dell’orizzonte e delle sue prospettive, trovare i nessi, gli intrecci e non semplificare e isolare, tagliare e giustificare, operazioni solo di nevrosi collettiva, per mettere la coscienza a posto, facendola tacere. L’argomento è cruciale? Occultiamolo.
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Claudio Gusmini
5 anni, 4 mesi
Mescolare suicidio ed eutanasia è un po come confondere il diavolo con l'acqua santa. In questo articolo si mescolano le due cose in modo non corretto. Per fortuna non è mai mancata l'umanità di medici che hanno da sempre accompagnato gli ultimi giorni di tanti di noi che lo volevano, risparmiando ai malati il supplizio di settimane, se non anni, di una vita resa possibile solo grazie alla medicina moderna (contenta a bisogna di lucrarci non poco tra l'altro), che di umano ha ben poco se non nulla. L'accanimento terapeutico imperversa e chi non lo vuole viene bollato come suicida. E' la disumanità della vita moderna, non tanto della morte, il vero problema. E' il dimenticarsi di quel " ama il prossimo tuo come te stesso", il vero problema, perno della nostra morale che fino a ieri era cultura diffusa e condivisa.....fino a ieri......
Riccardo Bianchi
5 anni, 4 mesi
Che dire, sono stato operato 4 anni fa di un tumore allo stomaco che lascia una speranza di vita a 5 anni dalla diagnosi pari al 50%. E' da molto più tempo che mi confronto con la morte, che la considero ovvia e inscindibile dalla vita. Se una persona è credente, capisco che non ne abbia disponibilità, è un regalo, un miracolo di Dio, e solo Lui può ragionevolmente porvi termine. Ma se non si è credenti, la vita ha il valore che il singolo vuole assegnargli, e ne ha piena disponibilità. Solo a lui spettano le valutazioni in base alle quali stabilire il fine vita ed è da una diecina d'anni che ho compilato un testamento biologico nel quale io definisco quali condizioni ritenga degne di vita e quali no. Ovviamente al momento non ha ancora valore legale, ma ha un grande valore etico e morale. Altrettanto ovviamente, visto che io non vincolo nessun altro alle mie condizioni ritengo indispensabile che altri non pretendano di vincolarmi alle loro.
Stefano Riva
5 anni, 4 mesi
Benedetto XVI, Papa Emerito: «Come riconoscere il Bene dal Male? Se ciò che si fa è a favore dell'Uomo o contro l'Uomo».