Dopo la rissa si fa in salita la strada per trattare

MONDO. Di storie, alla Casa Bianca, ne è passata una quantità industriale.

Poche, però, come quella di ieri, quando l’incontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, che doveva sancire l’intesa tra Usa e Ucraina (e in ogni caso come tale era stato presentato), è finito in rissa, tra urla che risuonavano anche fuori dallo Studio Ovale e hanno consentito ai cronisti di seguire quasi dal vivo una serie di scambi al limite dell’insulto. Per quel che è trapelato, sia sotto forma di immagini che di trascrizioni, si riconosce uno Zelensky che cerca di mantenere la calma e di rispondere con sarcasmo, mentre un sempre più irato Trump, e un non meno duro vicepresidente Vance, lo incalzano con minacce neppur tanto velate e accuse di ingratitudine. A un certo punto Trump dice «grazie a quello stupido (l’ex presidente Biden, n.d.r) vi abbiamo dato 350 miliardi». E Vance: «Hai detto una sola volta la parola grazie in tutto questo incontro?». Fino alla durissima conclusione, ancora di Trump: «Se non firmiamo l’accordo noi ce ne andiamo, hai chiuso».

L’istinto di mercante di Trump

Trump ha l’istinto del mercante, è vero, e Zelensky la spinta delle necessità. Ma è difficile immaginare un modo in cui le due parti possano risollevarsi da un contrasto così clamoroso, per di più esibito sotto gli occhi del mondo. Possiamo invece provare a immaginare che cosa l’abbia provocato. Nelle riprese delle prime fasi del colloquio, si vede Zelensky che non solo perora la causa dell’Ucraina ma invita Trump a considerare tutti i vantaggi di una possibile alleanza, esaltando le capacità del suo Paese. A un certo punto Zelensky propone anche uno scambio di licenze, dicendo che l’Ucraina ha la migliore industria produttrice di droni del mondo e gli Usa la miglior difesa antiaerea. In altre parole, Zelensky lega la stipula del famoso accordo sui minerali e sulle terre rare a un impegno organico degli Usa a fianco dell’Ucraina. In parole ancor più povere: l’accordo si farà quando gli Usa si impegneranno a fornire le famose «garanzie di sicurezza» che l’Ucraina chiede prima di avviare il negoziato con il Cremlino.

L’accordo che non c’era

L’accordo, che nei giorni scorsi era stato presentato come già perfezionato, in realtà non c’era. E Zelensky non era venuto a Washington per firmare ma per trattare. Questo deve aver mandato su tutte le furie Trump, che si era disposto ad accogliere il presidente ucraino (tre giorni fa aveva detto: «Mi comunicano che Zelensky verrà qui venerdì, per ma va bene») come un re che riceve un vassallo. L’idea di dover discutere ancora con Zelensky (altra frase celebre: «Vuol fare il duro ma non ha carte in mano») deve essergli parsa un affronto, un delitto di lesa maestà, oltre che un problema politico. E da qui allo scontro il passo è stato breve.

Quale accordo possibile

Quindi adesso tutto torna in alto mare ed è legittimo chiedersi se ci sarà mai un accordo. Ma soprattutto ci si deve interrogare sulle prossime mosse di Zelensky. Il presidente ha detto che l’unico Paese in grado di mettere l’Ucraina al riparo da ulteriori aggressioni russe sono gli Usa. E l’ha ripetuto anche quando Trump era già tornato alla Casa Bianca. La sua strada ora è strettissima, tra gli Usa che lo considerano ormai più un impiccio che un alleato e un’Europa che discute in libertà di peacekeeping e di truppe da mandare in Ucraina ma sconta il categorico rifiuto della Russia e quindi chiede l’ombrello degli Usa (che, sempre per bocca di Trump, negano anche solo l’idea) o quello ancora più improbabile dell’Onu.

Le possibili mosse di Zelensky

In più, Zelensky sa benissimo che la guerra tiene bloccata la situazione interna. Non si fanno elezioni perché la Costituzione lo vieta in tempi di legge marziale e nessuno lo contesta troppo apertamente per non minare l’unità nazionale contro l’aggressione russa. Ma se arrivasse un cessate il fuoco, una tregua o addirittura una pace, tutto si rimetterebbe in moto, con una rinascita dell’attività politica che, tra le naturali tensioni in un Paese che da tre anni affronta sacrifici enormi, l’imprevedibile effetto del ritorno in patria degli ucraini rifugiati all’estero e le ingerenze di questo o quel Paese straniero (dalla Russia agli Usa, passando per la Polonia), si presenta come un’insidiosa lotteria. In mano a Zelensky, oggi, c’è solo la reticenza a firmare l’accordo così desiderato da Trump e la sua capacità nel negoziare. Dovrà ottenere il massimo senza provocare la scomunica della Casa Bianca. Un compito da far tremare le vene ai polsi.

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