Denatalità, il governo non prenda solo atto

ITALIA. La bassa natalità e il suo impatto sulla crescita economica, necessario passare dalle parole ai fatti.

Siamo abituati ad ascoltare ministri dell’Economia addossare la colpa della bassa crescita del Paese alle politiche dei governi precedenti. Alcune volte abbiamo sentito anche responsabili di Via XX Settembre attribuire la responsabilità di risultati economici deludenti alla congiuntura internazionale avversa. Finora invece era inaudito un erede di Quintino Sella che individuasse in una debolezza strutturale del Paese come la denatalità uno dei principali fattori frenanti del nostro sviluppo. Finalmente, viene da dire per chi da tempo cerca di richiamare l’attenzione sul malessere demografico italiano, giovedì scorso il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha scelto una platea altamente politica - come quella di Atreju - per lanciare il seguente messaggio: «È vero che la crescita del Pil è asfittica ma ricordiamoci sempre che i Paesi in declino demografico, e purtroppo l’Italia lo è, fanno fatica a fare Pil». Il ministro ha poi aggiunto che «se valutassimo il Pil pro capite troveremmo l’Italia messa meglio ma questo non ci può consolare, questo è un problema gravissimo e non possiamo nasconderlo sotto il tappeto».

Non solo un problema di contabilità

Ci si sofferma spesso sugli effetti degli scompensi demografici sul welfare pubblico, che d’altronde sono i più evidenti. Pensionati e pensionandi se ne accorgono ovviamente prima degli altri. Appena venti anni fa c’erano 50 italiani considerati «dipendenti», cioè con età inferiore ai 15 anni o superiore ai 65 anni, per ogni 100 italiani potenzialmente «indipendenti», cioè in età da lavoro (quindi di età 15-64 anni). Un equilibrio già allora precario che adesso è tuttavia su una china dirompente. Attualmente infatti l’indice di dipendenza strutturale è salito a 57,5; vuol dire che ci sono 57,5 under 15 e over 65 per ogni 100 persone in età da lavoro. A meno di un’esplosione di produttività e ricchezza generata dai nostri imprenditori e lavoratori, sempre meno numerosi, la torta di ricchezza, di benessere e contributi previdenziali da dividere si rimpicciolisce e le fette a disposizione di ciascun bambino e anziano si assottigliano. Non è soltanto un problema di contabilità pubblica futura, come qualcuno si ostina a pensare.

L’esempio dei medici

I servizi offerti dallo Stato sociale stanno cambiando già qui e ora in ragione della bassa natalità e dell’intenso invecchiamento. Solo un esempio: oggi abbiamo 4,2 medici ogni mille abitanti, in linea con gli altri Paesi europei, ma il numero in Italia è destinato a rarefarsi rapidamente visto che – come ci ha ricordato di recente l’Ocse – abbiamo i camici bianchi più anziani del continente: il 54% ha più di 55 anni e il 27% più di 65. L’Ocse parla non a caso di una «ondata di pensionamenti» che «raggiungerà il picco nel 2025 e si normalizzerà solo alla fine del decennio».

Le problematiche nel mondo del lavoro

Ciò che finora la nostra classe politica ha faticato a osservare è l’impatto del declino demografico sulla capacità attuale di generare crescita. Eppure ci sono ragioni di questo genere, e non soltanto carenze di tipo formativo o culturale, dietro il numero crescente di imprese tricolore che denuncia difficoltà spesso insormontabili nel reperire lavoratori da assumere. A essere sempre più rare, purtroppo, non sono soltanto determinate «skills» ma le stesse persone che queste abilità potrebbero svilupparle. Per non parlare di un effetto quasi «invisibile» alle statistiche, legato all’invecchiamento del Paese, che consiste nell’affievolirsi della capacità di rischiare e di innovare del nostro tessuto imprenditoriale, due attitudini connaturate alla giovane età.

Uno sguardo al futuro

All’orizzonte non si vedono rapide inversioni di rotta. Il Presidente dell’Istat, Francesco Chelli, agli Stati Generali della Natalità ha appena osservato che, in base ai dati provvisori relativi a gennaio-luglio, le nascite in Italia sono 4.600 in meno rispetto allo stesso periodo del 2023, quindi a fine 2024 con ogni probabilità scenderemo al di sotto delle 379mila nascite dello scorso anno e «stabiliremo un nuovo record negativo». In un simile quadro, a Giorgetti va il merito di aver infranto – nel suo ruolo istituzionale - il silenzio sul nesso tra demografia e crescita, e di aver precisato che «la natalità non è un tema di destra o sinistra. Qualsiasi governo dovrà tenere conto di una variabile demografica per quanto riguarda gli obiettivi di crescita, un Paese vecchio non ha futuro». Al di là della lodevole consapevolezza, però, il ministro ha anche gli strumenti per passare dalle parole ai fatti, iniziando con l’attuale legge di Bilancio. Se non lui, chi? Se non ora, quando?

© RIPRODUZIONE RISERVATA