Demografia ed economia
gli orfani e i profitti

Complici le nuove difficoltà legate alla pandemia da Covid-19 e le annesse incertezze economiche, è comprensibile che siano aumentati i tentativi di riflettere su quale potrà essere il futuro delle nostre imprese e del mercato in cui si troveranno a muoversi. Da settimane, per esempio, analisti e osservatori s’interrogano su quanto accaduto in Danone, multinazionale francese del settore alimentare, ben nota anche in Italia. Il Ceo del gruppo, Emmanuel Faber, è stato spinto alle dimissioni da due fondi attivisti americani col 6% delle quote azionarie.

Il fatto che Faber fosse stato artefice, negli ultimi anni, di una netta (e ben pubblicizzata) svolta a favore della sostenibilità ambientale e dell’eticità degli affari non lo ha messo al riparo dalla brusca uscita di scena. È seguito dunque un dibattito, sulla stampa nazionale e internazionale, sul significato di quanto accaduto: ci si è chiesti, soprattutto, se non stiamo forse assistendo alla rivincita dello «shareholder capitalism» sullo «stakeholder capitalism».

In termini più semplici: i vecchi e sporchi profitti tornano forse a valere più degli obiettivi ambientali e sociali delle aziende? Domande legittime, e di non poco interesse. Eppure c’è un altro «dettaglio» della vicenda Danone che può aiutarci a fare luce su un’importante tendenza che plasmerà in futuro i mercati globali. Tra i fattori che spiegano la performance non eccelsa di Danone negli ultimi mesi, infatti, gli analisti hanno individuato un calo delle vendite di prodotti alimentari per l’infanzia in Cina. Un calo non imputabile al rallentamento dell’economia di Pechino, che come noto è stata tra le prime a rialzarsi dopo la pandemia, ma dovuto piuttosto alla continua diminuzione delle nascite nel Paese.

Anni fa, infatti, Danone e altre aziende multinazionali – come l’inglese Reckitt Benckiser, attiva nei beni di consumo, o la svizzera Nestlé, del comparto alimentare – avevano scommesso sul Paese più popoloso del pianeta, e soprattutto sul fatto che i suoi neonati non avrebbero fatto altro che aumentare. Il motivo? Si era diffusa la convinzione che la Repubblica popolare cinese avrebbe presto abbandonato la celebre (e spietata) «politica del figlio unico», introdotta nel 1979 per contenere un incremento della natalità allora giudicato nefasto (per ammissione delle stesse autorità cinesi, in questo modo si sarebbero evitate circa 400 milioni di nascite dal 1979 al 2011). Nel 2016, effettivamente, la Cina ha abbandonato la politica del figlio unico; da allora a tutte le coppie è stato consentito di avere due figli e in alcune zone del Paese anche di più. Tuttavia, contrariamente alle attese di alcune aziende multinazionali del comparto alimentare per bambini, il numero di neonati cinesi è tutt’altro che schizzato all’insù. Le abitudini riproduttive dell’ex Impero celeste, al di là dei divieti, sembrano ormai essersi uniformate a quelle di gran parte dell’Asia orientale. In Cina infatti il tasso di fecondità medio – cioè il numero medio di figli per donna – si è attestato attorno a 1,5 per le statistiche ufficiali, ben sotto il livello di 2,1 figli per donna necessario a mantenere una popolazione stabile. Si spiegano così le vendite non esattamente floride di prodotti per neonati, alle multinazionali dispiacendo. Non solo. Gli studiosi Nicholas Eberstadt e Ashton Verdery, in un saggio appena pubblicato sulla rivista americana «Foreign Affairs», vedono proprio nella demografia in crisi il «punto debole» delle ambizioni di potenza di Pechino.

In estrema sintesi, la Repubblica popolare cinese potrebbe diventare vecchia prim’ancora di diventare ricca, ritrovandosi con un’ampia fascia di popolazione anziana che non potrà giovarsi di una rete di welfare degna di questo nome, perdendo nel frattempo voglia di rischiare all’estero e di investire in patria. Le aziende in cerca di opportunità in Asia, non solo quelle specializzate in prodotti per l’infanzia ovviamente, dovrebbero prendere nota di simili andamenti.

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