Deficit, prova
di forza al 2,4%

Alla fine la resistenza del professor Tria è stata travolta. Il deficit dell’Italia salirà per il 2019 al 2,4 per cento del Pil. Il ministro dell’Economia era pronto a spingersi all’1,8-1,9, cioè a più del doppio di quanto aveva previsto il suo predecessore Pier Carlo Padoan. Su quella soglia aveva trovato una sorta di accordo ufficioso con la Commissione europea, a patto che si rimanesse sotto il 2 per cento. Tria era pronto a rischiare persino un 2,1 per venire incontro alle richieste sempre più pressanti dei partiti di governo.

Ma non c’è stato nulla da fare, Salvini e soprattutto Di Maio sono stati irremovibili: 2,4 per cento avevano deciso e 2,4 doveva essere. Sul tavolo c’erano le dimissioni del ministro «se non si fosse ritrovato nel progetto». Va da sé che le dimissioni del ministro del Tesoro all’avvio della manovra di bilancio avrebbero arrecato un colpo durissimo all’Italia che avrebbe fatto schizzare lo spread chissà dove. E così Tria ha accettato il diktat dei politici e ora si prepara a presentare la decisione italiana ai suoi colleghi di Bruxelles sapendo bene di dove giocare tutta la sua credibilità per far digerire un simile rospo.

È quasi certo che la Commissione boccerà la nostra previsione di deficit ed è verosimile che si aprirà la procedura di infrazione – anticamera del commissariamento. Ma molto dipenderà dai mercati: come reagiranno? Se lo spread questa mattina impazzirà e se crolleranno in Borsa i titoli delle banche, che hanno in pancia miliardi di buoni dello Stato, a palazzo Chigi si dovranno mettere l’elmetto e accettare le conseguenze di una scelta che potrebbe rivelarsi un azzardo, anzi peggio: una mossa irresponsabile. Che si tratti di questo sono convinte le opposizioni e le istituzioni di salvaguardia, dal Quirinale alla Bce, da Mattarella a Draghi. Ma Salvini e Di Maio sono convinti che non accadrà e comunque sono disposti a correre il rischio per mandare agli italiani un messaggio politicamente chiarissimo: deficit o non deficit noi abbassiamo le tasse, cambiamo la riforma Fornero sull’età pensionabile, diamo un reddito a chi non ha un lavoro, sosteniamo le piccole e medie imprese e inauguriamo un periodo di pace fiscale. È la «manovra del cambiamento», anzi «la manovra del popolo» come dicono i due leader, pronti a giocarsi il tutto per il tutto ben sapendo che la legge di Bilancio che si farà entro la fine dell’anno si riverbererà sulle elezioni europee del 2019. In quell’occasione si sfideranno «europeisti» contro «sovranisti» di tutto il Continente, e questi ultimi hanno nel governo italiano un punto di riferimento. Logico che Salvini e Di Maio vogliano arrivare all’appuntamento con le carte in regola e soprattutto con l’elettorato ancora pieno di speranza in loro.

È qui dunque che si gioca la sfida del governo giallo verde all’Europa per dimostrare che «i numerini» sono meno importanti della vita concreta delle persone. E allora, ecco il punto: se si dimostrasse che, nonostante la bocciatura di Bruxelles, i mercati hanno fiducia in quel che stanno facendo gli italiani, la sfida assumerebbe un carattere ancora più radicale. Ieri si è saputo che grillini e leghisti hanno sondato riservatamente alcuni fondi di investimento chiedendo loro come avrebbero reagito se avessimo portato il deficit sopra al 2 per cento. Non sappiamo quale sia stata la risposta, però è vero che lo spread ieri è diminuito di una manciata di punti. Basterebbe che oggi succedesse la stessa cosa per far dire ai due capi partito che si può osare nonostante gli ordini dell’Europa. Una vera rivoluzione «sovranista». Ma è ancora una ipotesi: prima dobbiamo vedere per credere.

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