Dedizione e rigore tra le ferite della Storia

LE ISTITUZIONI. Con Giorgio Napolitano scompare uno degli ultimi illustri politici di quella generazione che ha attraversato, con passione civile e pagando i costi delle proprie idee, le tragedie del Novecento e che ha costruito la Prima Repubblica, oggi riletta attraverso una silenziosa rivalutazione.

Papa Francesco, con sintesi efficace, lo ha definito «servitore della patria». Come esponente di primo piano del comunismo italiano e uomo delle istituzioni che ha accompagnato la storia del Paese, sarà ricordato soprattutto quale primo presidente della Repubblica rieletto per un secondo mandato. Lascerà dopo due anni con non poche amarezze, ma nella convinzione di aver compiuto la propria missione con dedizione e rigore. Questa è stata la sua impronta, nonostante abbia dovuto subire attacchi di ogni genere da destra (ancora mercoledì il «Giornale» titolava «il presidente anti Berlusconi») e da una larga fetta di sinistra e di movimenti d’opinione che consideravano invece Napolitano blando verso quella metà campo, oltre che troppo intento alla mediazione.

I giorni che hanno preceduto il suo congedo definitivo dal Colle hanno visto sovrapporsi l’irricevibile minaccia di impeachment da parte grillina e la difesa delle prerogative presidenziali messe in discussione dai magistrati dell’inchiesta Stato-mafia nella stagione delle stragi in Sicilia. Ha denunciato i guasti e la crisi dei partiti e alla fine, suo malgrado, ha dovuto constatare di non essere riuscito a riformare quella politica, inconcludente e rissosa, che era la parte essenziale della sua esistenza. La reprimenda con cui accetta di tornare al Quirinale ha avuto un impatto paradossale, se non surreale: più rampogna i partiti, più loro applaudono. Ognuno pensava che la strigliata fosse per il rivale. Eppure era un atto d’accusa potente contro la sordità collettiva delle forze politiche, pronunciato da un garante della Repubblica che s’era dato la consegna di creare un clima di dialogo necessario alle riforme, che sembrava impossibile: la necessità di mantenere adeguato il testo della Costituzione al ritmo dei tempi. Un appello ambiguamente recepito, inascoltato nella prassi.

Comprese che il sistema democratico e istituzionale stava scivolando drammaticamente verso il cortocircuito in una fase fra le più caotiche della Seconda Repubblica: il tramonto rumoroso del berlusconismo, lo spread fuori controllo, i pressanti richiami della Bce per rientrare dal debito, la Francia e la Germania che chiedono di commissariare l’Italia a rischio default. Da qui nasce la discontinuità rappresentata dalla medicina amara del governo Monti dei tecnici e, di lì a poco, l’esplodere del populismo grillino trasformando il bipolarismo in tripolarismo. Quello che era il «principe rosso» per le sue ascendenze borghesi e per la somiglianza con Umberto di Savoia, diventa «Re Giorgio». L’omaggio della stampa americana al piglio decisionista del Capo dello Stato apre un dibattito sul necessario interventismo di Napolitano, sul ruolo di supplenza svolto dal Colle per l’insipienza dei partiti. C’è chi accenna ad una forma di semipresidenzialismo, in ogni caso s’è trattato di garantire un ancoraggio di solidità istituzionale in una stagione burrascosa, fra tesi complottiste e velenose campagne mediatiche contro il Capo dello Stato.

Alla prova delle contestazioni subite, i partiti non hanno gradito che Napolitano pilotasse in quel modo le crisi, come ha scritto Marzio Breda, il più autorevole dei quirinalisti: «Nel suo modus operandi, e pertanto nella sua visione “non statica” del ruolo, significava costruire una cornice che permettesse di completare il traghettamento del Paese modernizzando l’istituzione che lui stesso incarnava». Tutto era eccezionale in quel periodo e la rottura del bipolarismo non consentiva un chiaro vincitore e una chiara opposizione. È il ritorno della «metafora della fisarmonica» descritta dall’ex premier Amato: i poteri del presidente restano stretti se il circuito parlamentare funziona, mentre si possono allargare se il meccanismo va in tilt. Del resto incomprensioni e difficoltà, per quest’uomo dal tratto aristocratico, l’hanno spesso accompagnato anche nel Pci. È stato fra i leader dell’ala migliorista, avversaria dei massimalisti e critica del berlinguerismo: nell’orizzonte del gruppo attorno ad Amendola c’erano il gradualismo per riformare il capitalismo, l’approdo alla socialdemocrazia (quasi un insulto nel Pci e contrastata pure da Berlinguer), il dialogo con i socialisti di Craxi. A tutto questo, compresa la dichiarata sicurezza sotto l’ombrello Nato, il Pci ci arrivò per tappe, fra tormenti e contrasti, spesso in ritardo. Nella biografia di Napolitano c’è il passo falso dell’avallo all’invasione sovietica del ’56 in Ungheria (farà ammenda anni dopo), ma nel ’68 si schiera con la Primavera di Praga.

Si devono comunque a lui i primi di una serie di atti e dichiarazioni che, successivamente, porteranno il partito di Berlinguer a distinguersi definitivamente dalla dottrina sovietica. Sia l’eurocomunismo sia l’esplicito europeismo vanno messi a credito dell’azione politica di Napolitano, che in quell’ambiente e in quel contesto s’è rivelata coraggiosa. Il fatto poi che in tempi recenti anche Kissinger, notoriamente intransigente verso il Pci, si sia ricreduto (ricambiato) nei confronti del presidente emerito dice della stima trasversale guadagnata da Napolitano e di culture che hanno saputo curare quelle laceranti ferite storiche.

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