Debolezza dei partiti
e formule senza rotta

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente». Non fa per noi la famosa massima confuciana ripresa da Mao Tse Tung. Lui, sì, il Grande timoniere aveva chiari in testa la rotta da seguire e l’approdo cui tendere. Non è il nostro caso. Non abbiamo una rotta. Non abbiamo un approdo in vista. Soprattutto, non abbiamo leader di partito che abbiano le qualità del Grande timoniere. L’elezione del nuovo presidente della Repubblica era attesa dai partiti per celebrare finalmente il grande riscatto della politica dal commissariamento subito nel nome del tecnico Draghi. Si è risolto invece nel suo collasso. Collasso della politica, dei partiti e persino delle coalizioni, tanto fragoroso da provocare pesanti fratture anche all’interno dei singoli partiti. D’ora in poi tutti dovranno navigare a vista con la speranza di trovare la giusta rotta. Per qualcuno (il M5S) si tratta di scongiurare l’affondamento. Per qualcun altro (la Lega), di non farsi sorpassare dall’inseguitore (FdI). Per altri (i vari gruppuscoli annidati al centro) di riuscire finalmente ad avere il vento in poppa. Infine, per il Pd, di prendere l’abbrivio per sperare di assicurarsi a fine corsa, se non la vittoria, almeno una buona qualificazione.

La riprova che nessun partito sappia a quale approdo punti è offerta dalla volatilità delle loro opinioni in fatto di legge elettorale e di assetto istituzionale. Nelle democrazie consolidate i cambiamenti dell’ordinamento elettorale e della forma di governo segnano i grandi passaggi della loro evoluzione. Proporzionale e presidenzialismo sono stati adottati dalle cosiddette «democrazie dell’alternanza»: due soli partiti in lotta per la guida del governo. Parlamentarismo e sistema proporzionale hanno trionfato invece laddove vigeva una grande frammentazione dei partiti e dell’opinione pubblica. Impedire la presenza in Parlamento delle molteplici voci politiche avrebbe potuto apportare gravi lesioni del tessuto democratico. È stato, questo, il modello adottato dalla nostra Repubblica al suo sorgere. Una democrazia nata sulle ceneri di una dittatura aveva bisogno del contributo di tutti per legittimarsi e stabilizzarsi. Fu perciò lungimirante la scelta dei nostri padri costituenti di adottare il proporzionale e il parlamentarismo. Ogni partito otteneva il riconoscimento che meritava. Veniva in tal modo scongiurata l’eventualità, nemmeno troppo remota, di sprofondare in una guerra civile.

Oggi, dopo vent’anni d’inconcludente inseguimento della democrazia dell’alternanza, assistiamo al ritorno in auge del proporzionale. Apparentemente un paradosso. Le distanze ideologiche tra i partiti si sono enormemente ridotte e quindi ci aspetteremmo l’approdo finalmente della nostra democrazia alla modalità dell’alternanza, senza il pericolo di forti scossoni. Il paradosso si spiega con la debolezza dei partiti. Questi sono impotenti, non diciamo, a dar vita a una democrazia dell’alternanza, ma neppure a una democrazia funzionante. Si sono rivolti a un tecnico per governare e a un presidente della Repubblica scaduto per non destabilizzare la democrazia. Ognuno per sé, nessuno per gli altri.

Tutti, indistintamente, si sono spellate le mani per applaudire il discorso d’insediamento di Mattarella: un simil programma di governo (e uno slittamento verso un semi-presidenzialismo di fatto) che poi essi ricusano nei loro comportamenti. L’unanimità di un giorno lascia il posto a una stabile rissosità. La verità è che il ritorno vagheggiato al proporzionale non è il frutto di un meditato, lungimirante progetto politico capace di rianimare la democrazia italiana. Tradisce piuttosto la ricerca di tutti di un porto sicuro, impossibilitati come sono ad affrontare il mare aperto, privi di una rotta.

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