Debito record
Cosa serve
per la nostra
credibilità

Sulla bilancia sotto pressione del debito pubblico italiano pesa anche il Covid. Ieri la Banca d’Italia ha annunciato il nuovo record, che a giugno ha raggiunto i 2.560 miliardi. Il rapporto debito/Pil è di circa il 160 per cento: un record storico davvero inquietante se pensiamo che il primato apparteneva al periodo tra il 1919 e il 1924 per gli effetti devastanti della Grande Guerra. Siamo terzi nel mondo (nel mondo) per ammontare di Bot, Btp e Cct e quant’altro collocati nelle aste pubbliche. Ci superano solo il Giappone e la «solita» Grecia, nostra tradizionale sorella minore di sventura in economia. Ma il dato del Giappone è da ridimensionare poiché il suo debito sovrano è «interno» ovvero detenuto da possessori nipponici e soprattutto perché il governo del Sol Levante è titolare di attività finanziarie elevatissime che gli permettono di pagare gli interessi sul debito.

Naturalmente l’accresciuto fabbisogno di spesa è sacrosanto e nessuno osa mettere becco sui nostri conti in Europa: il clima è (giustamente) cambiato e i parametri di Maastricht sembrano un ricordo lontano. Però qualche motivo di preoccupazione rimane. È vero, l’Unione europea ormai non ci dà più fastidio, è un guardiano rientrato nella sua guardiola in tutt’altre faccende affaccendato. Ma qualcuno che non ha bisogno degli ammonimenti europei per turbare i nostri sonni c’è: i mercati internazionali, i fondi privati e pubblici, detentori del nostro debito (che è molto più internazionale di quello nipponico e dunque molto più a rischio). Una crisi improvvisa e violenta come quella del 2011 potrebbe abbattersi sui nostri conti trascinandoci nella bufera. Inutile dire cosa accadrebbe se i mercati di mezzo mondo considerassero non più «sostenibile» il nostro debito, ovvero che ritenessero che non può più essere restituito. Sarebbe una sciagura nella sciagura visto quello che stiamo vivendo. Per il momento questo pericolo non è all’orizzonte: lo «spread», l’indicatore della sostenibilità dei nostri titoli, è sotto controllo e la Banca centrale europea continua la linea del «whatever it takes» inaugurata da Mario Draghi, ovvero è pronta a sostenere i nostri titoli pubblici con massicce operazioni finanziarie (almeno si spera, perché in fondo la decisione è politica).

Tutto questo non durerà in eterno e prima o poi dovremo mettere mano a questo macigno che pesa soprattutto sulle teste delle nuove generazioni. Ci sono diversi mezzi (anche in combinato disposto) per mettere mano ai nostri gravosi conti, tutti più o meno dolorosi: aumentare le tasse (una follia), generare inflazione (ma non abbiamo più una moneta sovrana e poi il rimedio sarebbe peggiore del male), tagliare la spesa corrente (è l’ossessione di Carlo Cottarelli ma è più facile a dirsi che a farsi), ristrutturarlo, ovvero in parole povere, non pagare i debitori (ma poi le aste dei titoli andrebbero deserte). Come si vede tutti rimedi difficili, quasi impossibili da adottare. Significa che non c’è niente da fare? No, tutt’altro. Gli studi finanziari dimostrano che i mercati si fidano di uno Stato debitore in due casi: quando stanno riducendo progressivamente il debito (è stato il nostro caso negli ultimi decenni ma ora, causa Covid, ci siamo inevitabilmente fermati) e quando si provvede a un piano serio di investimenti. Ed è questo il nostro caso. Se l’enorme tesoro del Recovery Fund portato a casa da Giuseppe Conte verrà utilizzato al meglio attraverso investimenti seri che riattivano l’economia, creano lavoro, snelliscono la burocrazia e modernizzano il Paese, i mercati continueranno a credere nel nostro Paese. Se invece utilizzeremo quel denaro in spesa pubblica e opere assistenziali, allora, prima o poi, il vento seminato produrrà tempesta e la parola d’ordine sarà «sell», vendere. A quel punto si salvi chi può. Pare che in Parlamento l’assalto alla diligenza del Recovery Fund sia già iniziato con la presentazione di 558 progetti. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha smentito e parla di pochi, mirati, progetti. Speriamo abbia ragione lui.

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