«Ddl Zan», alla fine
i nodi vengono al pettine

Non era mai accaduto e forse sarebbe potuto non accadere. La «nota verbale» della Santa Sede sul disegno di legge Zan che mette in guardia l’Italia su una possibile violazione del Concordato è solo l’ultimo atto di un dibattito che purtroppo ha assunto i toni del conflitto. Ma non siamo affatto arrivati allo scontro. Una «nota verbale» è un invito a riflettere, certamente forte e con un profilo diplomatico «di livello», ma tale resta. Bisogna piuttosto chiedersi perché non si sia avviato per tempo un confronto, come da più parti e da molti mesi era stato chiesto. E non lo aveva fatto solo la Conferenza episcopale italiana, ma tante associazioni laiche e cattoliche, un nutrito gruppo di intellettuali di varia estrazione culturale e politica e alcuni ex presidenti della Corte Costituzionale. Insomma non si tratta di un’ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Non si hanno notizie di precedenti. Ma non si ha nemmeno conferma del contrario.

Il Vaticano, a differenza di altri Paesi, non usa le «note verbali» ai massimi livelli, ma sono abbastanza consuete a livello di nunziature e non vengono rese pubbliche, perché la riservatezza è il segreto per avviare riflessioni più efficaci. Il limite maggiore del testo del ddl è il suo carattere ideologico. In pratica si chiede al legislatore di farsi pedagogo con una legge costruita con troppa presunzione definitoria, spesso costruita sulla base di percezioni, che per ovvie ragioni sono mutevoli, e con elevata discrezionalità dei giudici.

Nella discussione sul disegno di legge si è pensato di introdurre una clausola di salvaguardia della libertà di pensiero. E qui si è aggiunto pasticcio a pasticcio, perché si continua a ritenere la condotta rimproverata illecita, quindi frutto di un disvalore, ma non punibile perché frutto della libertà di pensiero. Il punto debole, anzi debolissimo del Ddl Zan è esattamente questo. Se si è ritenuto di dover introdurre una clausola di salvaguardia allora il problema di tutelare la libertà di opinione esiste. E libertà di opinione vuol dire libertà della scienza, della ricerca, libertà dell’insegnamento, tutte libertà laiche garantite dalla Costituzione. Ma c’è anche la libertà religiosa e la libertà di esercizio del magistero della Chiesa cattolica e delle altre religioni riconosciute dal Concordato e dalle Intese con lo Stato italiano.

La «nota verbale» non chiede lo stop alla legge, ma di rimodularla. Perché la politica non ci ha pensato prima, invece di seguire l’onda dei social, prigioniera della abilità redditizia (per lui) di un rapper qualsiasi dal gonfio portafoglio? In altri tempi altri uomini a Montecitorio e a Palazzo Madama non sarebbero caduti nella trappola della polarizzazione tra oscurantismo omofobo e limpida cultura dei diritti civili. La banalizzazione di tutto, la scarsa propensione alla complessità dell’attuale classe politica, la carente, se non insufficiente, competenza culturale e giuridica hanno concorso a scrivere davvero male una legge su una materia già di per sé ardua.

L’esempio clamoroso è l’art. 10 sull’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori che prevede la misurazione anche delle «opinioni». Si dovrebbe intendere delle opinioni dei soggetti più esposti al rischio di atti discriminatori, per esempio perché membri di organizzazioni omofobe. Ma non è così e la norma mal scritta si avvicina pericolosamente alla sanzione per semplici riflessioni e atteggiamenti culturali, ancorché sgradevoli e financo disgustosi.

Eppure in una democrazia compiuta anche il diritto ad odiare, se non si traduce in atti violenti, è ammesso.

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