L'Editoriale
Venerdì 24 Gennaio 2025
Dazi e sanzioni per l’Italia, opportunità ma anche sfide
MONDO. Per il neo presidente americano Donald Trump «la parola più bella nel dizionario è “dazio”», aveva detto in campagna elettorale.
Il 23 gennaio è tornato a ribadirlo senza giri di parole in collegamento video di fronte alle élite riunite a Davos: «Il mio messaggio è molto semplice: venite a produrre in America e vi daremo le tasse più basse del mondo. Se non produrrete da noi, ed è una vostra prerogativa, allora molto semplicemente dovrete pagare dazi». Poi ha bacchettato il nostro continente – dicendo però allo stesso tempo «amo l’Europa e voglio essere costruttivo» – per gli eccessi di burocrazia e tasse che frenano gli investimenti, inclusi quelli americani. È naturale, dunque, che una nuova ondata protezionistica sia tra gli scenari più temuti anche in Italia, Paese la cui industria è trasformatrice ed esportatrice per eccellenza. La Banca d’Italia ha ricordato di recente che la nostra nazione è «significativamente esposta verso gli Stati Uniti, che rappresentano la seconda destinazione, dopo la Germania, delle vendite estere di beni». Di conseguenza «un inasprimento dei dazi avrebbe effetti significativi sulle aziende italiane che esportano verso il mercato statunitense, soprattutto le piccole e medie».
Invece di disperare o alimentare lo scontro retorico, la nostra classe dirigente dovrebbe fare proprio l’approccio di Ngozi Okonjo-Iwala, direttrice dell’Organizzazione mondiale del commercio: «Per favore, evitiamo di andare in iperventilazione» sui dazi preannunciati da Washington, ha detto
Invece di disperare o alimentare lo scontro retorico, la nostra classe dirigente dovrebbe fare proprio l’approccio di Ngozi Okonjo-Iwala, direttrice dell’Organizzazione mondiale del commercio: «Per favore, evitiamo di andare in iperventilazione» sui dazi preannunciati da Washington, ha detto. In primo luogo perché, come è fisiologico che sia, tra gli annunci elettorali e la politica di governo c’è sempre una discreta differenza. Vale anche per il neopresidente americano che, assieme ai suoi consiglieri, conosce studi ed esperienze storiche che dicono all’unisono una cosa semplice: dazi altissimi e generalizzati sarebbero pagati anche dai consumatori domestici.
Ragioni economiche e sicurezza
In secondo luogo, nella retorica trumpiana, gli ostacoli da frapporre all’importazione di beni da un altro Stato sono motivati a volte da ragioni puramente economiche, altre volte da ragioni di sicurezza nazionale. Su entrambi i fronti sarà bene fare due precisazioni: gli Stati Uniti non sono l’unico Paese a ricorrere a misure che colpiscono la libera circolazione di merci e servizi, e Trump non sarà né il primo né l’ultimo Presidente degli Stati Uniti a mettere in campo scelte simili.
Si pensi, per restare alla recente Amministrazione democratica guidata da Joe Biden, all’innalzamento la scorsa primavera dei dazi dal 25% al 100% sulle auto elettriche importate dalla Cina. Oppure si ricordi l’imponente apparato di regole, aiuti e sussidi pubblici predisposto nel 2022 da Washington con l’Inflation Reduction Act per sostenere la transizione ecologica dell’industria nazionale. Fuor di retorica green, quella svolta fu anche uno strumento per accrescere l’attrattività americana ai danni di altri concorrenti e in definitiva un colpo alla nostra già barcollante competitività. Non mancarono infatti perfino aziende europee che a quel punto preferirono investire negli Stati Uniti per avvantaggiarsi delle condizioni legate alla «preferenza americana».
Le prime sanzioni da Obama
In particolare c’è da attendersi una continuità fra questa Amministrazione e le precedenti sul ricorso alle sanzioni economiche, specie rispetto alla Cina. Secondo il Peterson Institute for International Economics, se si considerano solo le sanzioni della cosiddetta «Entity List», una lista stilata dal Dipartimento del Commercio di Washington che include individui e organizzazioni sottoposti a restrizioni per export e trasferimenti di tecnologia per motivi di sicurezza nazionale, si scopre che la prima impennata delle sanzioni di questo tipo si è registrata con Obama. Poi con l’Amministrazione Trump del 2016 si è visto un altro balzo, non tanto nel numero di soggetti aggiunti alla lista quanto nella percentuale di soggetti cinesi: il 59% del totale a fronte del 19% con Obama. L’Amministrazione Biden ha raddoppiato il numero di soggetti sanzionati, in ragione dell’invasione russa dell’Ucraina, e ha aggiunto alla lista esattamente lo stesso numero di individui e aziende cinesi del primo Trump (384). Quanto alle sanzioni economiche di ogni genere, i tre settori più colpiti sono: elettronica, apparati militari e di difesa, industrie high-tech emergenti. Insomma, la politica commerciale è sempre più uno strumento di politica estera, e su questo fronte i valori e gli obiettivi che accomunano Stati Uniti ed Europa potrebbero essere più di quelli che ci dividono.
Infine, come ha osservato l’a.d. di Sace, Alessandra Ricci, «il nostro export è meno concentrato in termini di prodotti rispetto alla Francia o alla Germania, ovvero produciamo più prodotti che vengono esportati, e questo diventa un fattore di intrinseca forza del tessuto produttivo italiano». Rafforzare da una parte la nostra competitività alla volta di altri mercati internazionali, dall’altra recuperare il progetto abbandonato un decennio fa di un’area di libero scambio Usa-Ue che attiri le aziende americane nel nostro mercato, sarebbe nel nostro interesse e smusserebbe alcune eccessive asperità da parte di Trump.
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