Dazi alla Cina, sussulto Ue sull’auto

MONDO. Dieci favorevoli (tra cui l’Italia e la Francia), cinque contrari e dodici astenuti. Così si sono schierati gli Stati dell’Unione europea rispetto alla proposta della Commissione di introdurre dazi compensativi sulle auto elettriche cinesi per rispondere alla massiccia erogazione di sussidi pubblici in spregio alla libera concorrenza.

Per bloccare l’esecutivo di Bruxelles sarebbe stata necessaria una maggioranza qualificata di 15 voti contrari e una rappresentanza del 65% della popolazione del continente, mentre 15 voti favorevoli avrebbero rappresentato un automatico semaforo verde; adesso, con un via libera che si configura come una «no opinion» da parte degli Stati, la Commissione potrà procedere quando riterrà opportuno, magari già entro fine mese.

Il ruolo della Cina

Scontata la reazione della Repubblica popolare cinese che ha parlato di «pratiche protezionistiche ingiuste, non conformi e irragionevoli da parte dell’Ue». Altrettanto prevedibile il rammarico espresso dai rappresentanti delle aziende automotive tedesche con forti interessi in Cina, a partire da Volkswagen. La vera sorpresa è stata la decisione del governo tedesco, guidato dal cancelliere socialdemocratico Scholz, di votare espressamente contro la proposta della Commissione von der Leyen invece di astenersi come atteso fino a qualche giorno fa. Il «nein» dell’esecutivo di Berlino, accompagnato da un invito a «non innescare una guerra commerciale con la Cina», è arrivato a costo di incrinare la coalizione di maggioranza, considerato che i Verdi - al governo con Spd e Liberali - sono fautori di un approccio muscolare nei confronti di Pechino.

La vera sorpresa è stata la decisione del governo tedesco, guidato dal cancelliere socialdemocratico Scholz, di votare espressamente contro la proposta della Commissione von der Leyen invece di astenersi come atteso fino a qualche giorno fa.

Di fronte al risultato appena descritto, sono possibili due considerazioni di ordine generale e due più specifiche sul ruolo tedesco. In primo luogo, come ha scritto alla vigilia del voto Janka Oertel dello European Council on Foreign relations, «i dazi sono una misura basata sulle regole, volta a livellare le condizioni di concorrenza dei produttori di automobili dell’Ue nel mercato unico europeo. La Commissione non ha lanciato i dadi stabilendo una cifra arbitraria, i dazi proposti sui veicoli elettrici cinesi si basano su un’ampia indagine sulle sovvenzioni cinesi nell’intera catena di fornitura dei veicoli elettrici». Ignorare questa valutazione legale e ponderata, con buona pace dei novelli critici di matrice comunista o (teoricamente) ordoliberale, equivarrebbe a «infligge(re) un duro colpo a qualsiasi futuro approccio basato sulle regole, e quindi alla pietra angolare della politica commerciale comune dell’Ue». In secondo luogo, pur giudicando positivo l’apparente sussulto dell’Ue sulle auto elettriche cinesi, occorre ribadire che i dazi da soli non cambieranno gli equilibri industriali tra noi e l’ex Impero celeste.

I dazi e la capacità industriale

Rendendo più difficile per la Cina «smaltire» la sua capacità industriale in eccesso, visto che il mercato statunitense è blindato da imposte doganali anche più salate, i dazi in discussione potrebbero per esempio concedere tempo e rafforzare la leva negoziale per rilanciare le trattative sull’insediamento di impianti produttivi cinesi in territorio europeo (un’ipotesi, nota bene, che non era mai stata nemmeno discussa prima che la Commissione avviasse la sua indagine sui sussidi illegali made in China). Ci sarebbero da rispettare due condizioni minime: nel tempo guadagnato si dovrebbe lavorare per accrescere produttività e competitività dell’ecosistema europeo, e d’ora in poi l’Unione dovrebbe parlare sostanzialmente con una voce sola per stabilire le condizioni-quadro di simili impianti, pena apparire disunita e debole.

Veniamo ora al ruolo della Germania. Innanzitutto appare incomprensibile che Berlino, dopo quanto accaduto negli ultimi tre decenni in settori come il tessile, la chimica o l’energia solare, proponga all’Ue di privarsi a priori dell’unico possibile strumento negoziale con la Cina nel tentativo di salvaguardare un comparto come l’automotive dove lavorano - direttamente e indirettamente - 14 milioni di Europei.

Veniamo ora al ruolo della Germania. Innanzitutto appare incomprensibile che Berlino, dopo quanto accaduto negli ultimi tre decenni in settori come il tessile, la chimica o l’energia solare, proponga all’Ue di privarsi a priori dell’unico possibile strumento negoziale con la Cina nel tentativo di salvaguardare un comparto come l’automotive dove lavorano - direttamente e indirettamente - 14 milioni di Europei. Probabilmente la Germania, pressata dai suoi colossi privati del settore, spera ancora di sopperire alla debolezza industriale europea con il suo radicamento nel mercato cinese. Si tratterebbe, come dimostrano da mesi i dati sulle vendite di auto elettriche e la perdita di quote di mercato per il made in Deutschland in Cina, di un ennesimo peccato di hybris. Più in generale, il «no» della Germania alla proposta di Bruxelles sui dazi, a fronte del voto positivo di Italia e Francia, apre uno scenario inquietante: dalla politica commerciale all’atteggiamento verso la Cina, dal debito comune al mercato unico dei capitali (vedi il caso Unicredit-Commerzbank), Berlino sembra oggi meno incline ad allineare interesse nazionale e interesse comune per risolvere le debolezze strutturali dell’Unione europea.

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