Dante viaggia
dentro noi stessi

«Perché portare al centro della riflessione cristiana i grandi temi dell’aldilà, come morte, risurrezione, anima e corpo, inferno, paradiso, giudizio, ecc. vuol dire aiutare le donne e gli uomini di oggi a vivere più autenticamente il momento presente, lontano da sterili paure e inutili sensi di colpa, ma soprattutto con un senso, nella serena consapevolezza che ciò che ci attende al termine della vita sarà solo un abbraccio di compimento e di eternità. Aldiquà e aldilà sono due aspetti inscindibili della vita.

Uno illumina l’altro. Trascurarne una parte vorrebbe dire affrontare l’uomo dimezzato. Anche nella sua felicità». Così scrive Paolo Scquizzato nel suo: E ultima verrà la morte...e poi? Riflessioni sul vivere e il vivere ancora (Effatà Editrice, 2015). Parole che si adattano perfettamente alla Commedia dantesca.

Il viaggio nell’Aldilà che Dante racconta non avviene solo in uno spazio fisico, geografico, ma anche nell’interiorità del soggetto, vale a dire di ciascun essere personale. È un viaggio che ci chiede di andare al di là delle apparenze e dell’esteriorità superficiale per giungere alle profondità della coscienza, per arrivare alla radice di noi stessi. È un percorso, un cammino di conoscenza, di maturazione, di «conversione», che culmina con l’acquisizione di un’identità adulta armonica. A tale identità adulta Dante arriva al termine di un faticoso processo di consapevolezza di sé, raggiunta grazie ai suoi sforzi, ai suoi errori e alle sue cadute, ma anche alle sue guide e all’illuminazione che viene dall’alto, da Dio-Trinità. Tale processo di individuazione avviene per gradi e non senza fatica, inoltre non è acquisito una volta per sempre ma chiede un continuo investimento di energie e di volontà, necessarie a lasciarci trasformare (convertire) e salvare, continuamente.

Durante questo viaggio – il viaggio della vita, che è la vita – prendiamo coscienza dei nostri limiti e delle nostre fragilità e siamo chiamati ad integrare le nostre componenti istintive ed irrazionali (la nostra «animalità») con quelle facoltà superiori che rappresentano la spinta ad elevarci al di sopra della nostra «umanità», per trascenderla, per «trasumanare». La cosa tragica è che noi esseri umani, essendo animali, riusciamo a volte ad essere «più che bestiali»: Dante ce lo racconta nel suo viaggio attraverso i gironi infernali, in un crescendo di orrore; nel Cocìto troveremo infatti uomini che ormai non sono quasi più neppure bestie...

Questo viaggio, pur essendo descritto come un «continuum», per tappe successive, in realtà dà come esito due approdi opposti, in base alle scelte che siamo chiamati a fare: o verso la negazione o verso la pienezza dell’umano.

In questo percorso verso la realizzazione della nostra umanità piena, Dante fa esperienza del perdono e della misericordia divina. Passa gradualmente da una concezione della giustizia distributiva, applicata meccanicamente (si veda la figura del giudice infernale Minosse che di questa giustizia è la parodia) al suo superamento; incontrerà nel Purgatorio personaggi scomunicati e violenti che, pentendosi, si sono abbandonati nella braccia di Colui che volentier perdona e che salva. E nel Paradiso stupirà ancora di più i lettori incontrando tra i beati pagani e prostitute.

Con la parola Dante racconta i «luoghi»: i paesaggi fisici, gli abissi oscuri dell’anima ma anche gli slanci verso la risalita. Così Dante, ogni volta che si trova a descrivere il paesaggio dell’Aldilà, ricorre a similitudini, dei paragoni con luoghi geografici reali (dell’al di qua) a lui noti e che anche il lettore può riconoscere. Strano realismo quello di Dante: una visione, un sogno che diventano itinerario, profezia, progetto politico, propositi da attuare e da tradurre in azione.

Qualcosa di simile succede nei confronti dei «peccati», cioè dei lati oscuri della nostra personalità: Dante non ricorre a discorsi astratti o intellettualistici ma ad incontri con personaggi storici «reali» (o appartenenti al patrimonio collettivo di miti ripresi dall’antichità), che hanno fatto scelte precise ed hanno quindi precise responsabilità. Questo gli permette di non perdere mai il contatto con la realtà concreta, gli consente di «oggettivare» le tappe del suo processo di maturazione, di fare emergere anche gli aspetti meno positivi del sé, evitando di cadere nell’intellettualismo astratto, nello spiritualismo o nel moralismo.

Il percorso che Dante compie nello spazio e nel tempo va dall’Inferno al Paradiso terrestre, posto come un’anti-selva oscura, sulla sommità della montagna del Purgatorio. Una volta staccatosi, insieme a Beatrice, dal Paradiso terrestre, «puro e disposto a salire a le stelle», Dante prosegue il suo viaggio nei cieli del Paradiso entrando però in una dimensione «altra», fuori dallo spazio e dal tempo, cioè nell’eterno. È un privilegio che gli è stato concesso per Grazia divina, quello di fare esperienza dell’eternità prima di morire e di poterne dare testimonianza agli uomini, una volta rientrato da questo «assaggio» anticipato della perfetta beatitudine.

L’anelito a superare i limiti ed il peso della materia, a trascendersi – per «trasumanare»– è presente in ogni essere umano e ne rappresenta sicuramente il tratto distintivo. Questo anelito, il compito per antonomasia della nostra «vocazione», risulta ancora più urgente e drammatico al nostro animo di questi tempi, quando affiora la consapevolezza di aver toccato il fondo e di esserci attardati troppo a lungo dietro a vane parvenze di bene (torti da falso piacer), ad occupazioni e frenesie che non danno la felicità. Quando l’uomo dà credito a questo anelito, senza lasciare che si spenga del tutto, scopre l’esigenza pressante di una conversione che si rivela fin dall’inizio tutt’altro che facile; anzi, iniziando il cammino sperimenta la necessità di resistere e di lottare contro la rassegnazione, la rinuncia, la disperazione, per non perdere «la speranza dell’altezza». La vita spirituale, in fondo, è una continua tensione agonica, è una lotta.

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