Dall’abuso d’ufficio è uscito un pasticcio

ITALIA. Con l’approvazione definitiva del disegno di legge che porta il nome del Guardasigilli Nordio, il panorama giuridico italiano si appresta a subire una trasformazione radicale.

Otto articoli, otto pilastri che promettono di riscrivere il Codice penale, il Codice di procedura penale e l’ordinamento giudiziario. Eppure, tra questi, un punto spicca per la sua controversia e per il sollievo (o forse l’angoscia) che suscita tra i sindaci della nostra Penisola: l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Articolo 323 del Codice penale, il cui spirito punitivo aleggiava come una spada di Damocle sopra le teste dei pubblici ufficiali, è ora un capitolo chiuso della nostra storia giuridica.

La norma, che puniva il pubblico ufficiale per aver violato consapevolmente e discrezionalmente leggi, regolamenti o l’obbligo di astensione, causando un danno ad altri o procurandosi un vantaggio patrimoniale, è stata cancellata. Per vent’anni, questa disposizione è stata oggetto di continui ritocchi e revisioni, l’ultima delle quali risale al 2020. Eppure, nonostante i numerosi tentativi di affinamento, l’articolo 323 è sempre stato percepito come troppo generico, un mostro di carta che instillava nei sindaci la «paura della firma». Una paura che, alimentata dalla prospettiva di indagini penali spesso concluse con archiviazioni, ha paralizzato l’azione amministrativa, trasformando la burocrazia in una macchina difensiva.

Ecco allora che la riforma Nordio, con un colpo di spugna, abroga l’articolo incriminato, sostenendo che la versione del 2020 non avesse risolto le ambiguità. Ma ci si domanda: non sarebbe stato più saggio e giusto riscriverlo ancora una volta, definendo in modo più preciso le condotte punibili, anziché creare un pericoloso vuoto normativo? L’abolizione totale della norma sull’abuso d’ufficio non risolve il problema, lo sposta. Se è vero che la norma era scritta male e necessitava di una definizione più puntuale, è altrettanto vero che eliminarla del tutto lascia i cittadini senza protezione contro gli abusi di discrezionalità da parte dei pubblici amministratori. Le osservazioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) al Parlamento, che chiedevano una migliore definizione tanto dell’abuso d’ufficio quanto del traffico di influenze, sono rimaste inascoltate. Si è usata la spugna anziché il Codice attingendo alla dottrina giuridica.

I sostenitori della rimodulazione, anziché della cancellazione, avevano sollevato due principali preoccupazioni. Primo, l’effetto paradossale per cui, in mancanza di un reato specifico, si potrebbero contestare agli amministratori pubblici reati più gravi. Secondo, il rischio di mandare impuniti comportamenti illeciti, trasmettendo al Paese un messaggio di impunità e scoraggiando gli investimenti stranieri.

In un curioso gioco di contraddizioni, mentre da un lato si cancella l’abuso d’ufficio, dall’altro si reintroduce ripescandolo dalle soffitte giuridiche, e spazzolandolo sotto una nuova veste, il «peculato per distrazione», ora denominato «Indebita destinazione di denaro o cose mobili». Questa nuova fattispecie, che prevede pene da sei mesi a tre anni per chi utilizza somme o beni per fini impropri, sembra una toppa su un vestito ormai logoro, una parziale e un po’ sgangherata copertura penale per gli abusi patrimoniali dei pubblici ufficiali.

Ecco che allora il legislatore si trova accusato di disorganicità, un male endemico che affligge spesso la nostra produzione normativa. La comparazione con i decreti «milleproroghe» o «omnibus», che affastellano insieme norme su argomenti diversi, è inevitabile. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si affanna a escludere ogni attinenza tra l’abolizione dell’abuso d’ufficio e la nuova fattispecie penale, ma la contraddittorietà è evidente.

Il problema del traffico di influenze segue un percorso simile. Anche qui, una definizione più precisa sarebbe stata preferibile a una restrizione eccessiva, per evitare il rischio di procedure di infrazione europee. Così, dalla riforma dell’abuso d’ufficio al pasticcio d’ufficio, il passo è breve. E ancora una volta, ci troviamo a riflettere su un modo di legiferare che sembra più dettato dalla necessità di risolvere urgenze politiche contingenti che dalla volontà di costruire un sistema giuridico solido e coerente.

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